Continua il nostro viaggio alla scoperta del metodo Ten Training, associazione sportiva dilettantistica che dalla sua nascita nel 2022 propone allenamenti di perfezionamento per singoli e piccoli gruppi, collaborando anche con i club del nostro territorio. Nelle settimane precedenti, in compagnia del responsabile tecnico Fabio Mascetti e del preparatore atletico Giacomo Marcon, abbiamo approfondito rispettivamente la tecnica funzionale e gli aspetti motorio-coordinativi, due dei quattro pilastri su cui poggia il lavoro di Ten. Oggi, ci addentreremo nella terza componente, le capacità cognitive: un aspetto a cui spesso non si dedica la giusta attenzione e che invece può fare la differenza non solo in termini prestazionali dell’atleta, ma anche da un punto di vista più ampio di crescita della persona. Concentrazione e rapidità di decisione sono infatti elementi chiave tanto sul rettangolo verde (o qualsiasi altro campo o terreno di gioco) quanto nella vita di tutti i giorni. È proprio questo l’intento perseguito da Ten, in una società moderna dove la pervasività delle tecnologie rischia di limitare quella capacità di pensiero che è proprio al centro della filosofia del gruppo. Ne parliamo insieme a mister Mascetti, in una chiacchierata a trecentosessanta gradi che tratta dinamiche di allenamento, personalizzazione degli esercizi e risultati raggiunti grazie a questo focus sulla presenza mentale.

Mister, in cosa consiste innanzitutto la componente cognitiva del vostro metodo?
“Partiamo da una premessa. Con il passare del tempo, le esperienze motorie – e di conseguenza cognitive – vissute dai ragazzi hanno subito un profondo cambiamento. Basti pensare ai giochi di strada in cui bisognava creare strategie per vincere, come “Ce l’hai” e “Nascondino”, o banalmente anche alla semplice azione di scavalcare una rete per raccogliere la frutta dagli alberi; tutte situazioni in cui c’era da ingegnarsi per trovare soluzioni. I ragazzi di oggi, al contrario, sono talmente sopraffatti dalle tecnologie che rischiano di presentare lacune a livello cognitivo. Il nostro intento è compensare queste mancanze inserendo varie problematiche all’interno delle esercitazioni. Se un ragazzo deve portare la palla da un punto A a un punto B, all’inizio si concentrerà a memorizzare le varie gestualità motorie e tecniche necessarie, ma una volta appreso il gesto, lavorerà senza pensare (è un po’ la stessa cosa che succede quando si impara a guidare). In una partita di calcio, però, si pone il problema dell’avversario che compie delle mosse per impedirmi di fare gol, obbligandomi a farne altrettante per trovare soluzioni e raggiungere il mio obiettivo. Spesso, durante gli allenamenti, i ragazzi non sono abituati a risolvere situazioni del genere; è per questo che noi le affrontiamo quando lavoriamo sia agli aspetti tecnici che agli aspetti motori, in modo tale da rendere i movimenti il più identici possibili a quelli che potrebbero essere richiesti in partita. Ad esempio, quando un istruttore chiama dei colori, il ragazzo non potrà più guardare solo la palla, ma dovrà anche raccogliere informazioni su quello che succede, stare attento all’indicazione fornita, andare alla ricerca del colore giusto. Come in tutti gli esercizi, si parte da un livello base e si procede per gradi, aumentando di volta in volta la difficoltà, ad esempio chiamando il colore opposto o assegnando ai cinesini nomi delle squadre o numeri per eseguire operazioni matematiche. È così che cerchiamo di allenare una componente fondamentale, il cervello. Dopotutto, dati UEFA alla mano, un calciatore professionista tocca il pallone dai tre ai sei minuti. Una partita, però, ne dura almeno novanta. Quindi cosa succede negli altri ottantacinque? Bisogna correre, essere preparati a livello fisico, ma soprattutto pensare”.

Come viene adattata questa componente ai vari gruppi di lavoro e nelle varie esercitazioni?
“Innanzitutto non lavoriamo mai in modo specifico su un singolo aspetto, ma cerchiamo sempre di abbinarlo ad altri. Potrebbero esserci esercizi in cui prevale l’aspetto cognitivo ma che comprendono anche una parte tecnica o motoria o entrambe. La parte cognitiva dipende sicuramente dalla fascia di età, ma anche dal livello del ragazzo. Ci sarà chi è più cognitivo e chi invece è più dinamico, quindi il nostro compito è trovare un equilibrio e soprattutto lavorare in base alla conoscenza delle caratteristiche di ognuno. Ad esempio, nei più piccoli è forte il desiderio di essere al centro dell’attenzione, quindi bisogna concentrarsi sulla gratificazione, in modo che nessuno si senta a disagio o inferiore a un altro. Se qualcuno è più bravo tecnicamente, andrà ovviamente elogiato, e magari il più scarso da quel punto di vista è invece più avanti a livello cognitivo, e anche in quel caso andrà elogiato. Questo approccio è fondamentale perché i ragazzi devono lavorare in uno stato d’animo di felicità e serenità. Ricordiamoci che quello che ora conosciamo come calcio era nato con il nome di gioco del calcio. Nessuno, neanche un adulto, farebbe un gioco che non lo diverte: tutti indistintamente, da un ragazzino di sei anni a un uomo di trent’anni, devono trovare soddisfazioni in quello che stanno facendo”.

In campo, quale sarà la differenza tra un giocatore pensante e un giocatore che al contrario non allena con costanza le capacità cognitive?
“Il giocatore pensante è un giocatore che davanti a una problematica arriva a risolvere il problema in maniera autonoma, tramite il pensiero e la sperimentazione. Il giocatore non pensante, invece, avrà sempre bisogno che l’allenatore gli dica che comportamento attuare. Il fatto è che, come in qualsiasi gioco situazionale, il problema deve essere risolto in maniera deduttiva e non induttiva. È assolutamente sbagliato dire al ragazzo che non è capace, mostrarsi superiori a lui e fornirgli la soluzione. Il modo corretto, invece, è confrontarsi con lui riguardo al problema e chiedergli cosa suggerisce di fare per risolverlo, costringendolo così a pensare. Se un ragazzino ha una difficoltà nel compiere una gestualità tecnica o motoria, bisogna estrapolare la situazione e fargliela rivivere in allenamento, in modo che sia il ragazzo, con una deduzione, a trovare la sua soluzione. Non conta tanto quale essa sia, perché possono anche essercene diverse, ma l’importante è che il ragazzo ci arrivi. Così facendo, creiamo giocatori che troveranno soluzioni in base alle loro caratteristiche: ci sarà chi opterà per un dribbling, ovvero una gestualità tecnica, chi per uno smarcamento, usando quindi la tattica, e chi invece sfrutterà il fisico, ma l’obiettivo sarà raggiunto in tutti e tre i casi in modo autonomo. In un calcio diventato sempre più veloce, spesso un giocatore tecnicamente molto forte ma con un tempo decisionale di cinque secondi non riesce a raggiungere il livello di giocatori tecnicamente meno abili ma con tempi decisionali di uno o due secondi. E nel calcio di alto livello, quei tre secondi sono un abisso”.

Sotto l’aspetto calcistico ma anche generale, quali feedback da parte dei genitori o degli atleti stessi vi hanno dato più soddisfazione?
“La soddisfazione più bella è stata a un open day di una società con cui collaboriamo. A fine intervento mi si è avvicinata la mamma di un ragazzino che aveva già fatto quattro o cinque lezioni con noi. Mi ha raccontato che il figlio a scuola aveva sempre avuto un problema di deficit dell’attenzione e che di recente la maestra le aveva chiesto cosa fosse cambiato nel ragazzo, perché avevano notato dei miglioramenti a livello di concentrazione. La mamma era ovviamente molto contenta che gli allenamenti aiutassero anche sotto questo aspetto e ha rinnovato il pacchetto. Per noi è stato molto gratificante perché non vogliamo costruire solo calciatori, ma anche persone migliori per le generazioni future”.

Il vostro focus, in effetti, esula dal mero discorso calcistico. Quale aspetto migliore di quello cognitivo per ribadire la connessione tra sport e vita? Soprattutto alla luce dei disturbi sopracitati.
“Deficit dell’attenzione e iperattività sono problemi sempre più in evidenza anche a causa della tecnologia, che sotto certi aspetti può essere negativa se non si riesce a controllarla. Agli allenamenti i ragazzi si divertono ma sono anche costretti a stare attenti e lavorare da un punto di vista cognitivo. Con la nostra metodologia, stiamo creando degli atleti pensanti. Un ragazzo che inizia un percorso da noi e dopo qualche anno decide di cambiare sport, avrà già quelle componenti cognitive che gli permetteranno di adeguarsi alla nuova disciplina in maniera più semplice, oltre al fatto che con la giusta base motoria, apprenderà la gestualità tecnica più facilmente. I risultati si vedono anche nella vita normale e scolastica, confermando ancora una volta la stretta connessione tra scuola e sport, che dovrebbero essere una palestra in cui imparare a gestire gli aspetti emotivi. È per questo che Ten vede lo sport come un’attività innanzitutto piacevole con un’utilità a trecentosessanta gradi, dato che aiuta i ragazzi a prepararsi al futuro che li aspetta al termine degli studi”.

Silvia Alabardi

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