Varese, la più grande gioia della mia carriera sportiva. Varese, il dolore più intenso e lacerante“. Forse è sbagliato, sicuramente lo è, ridurre in poche frasi vent’anni di onorata carriera professionistica.

Ma queste parole, sibilate più e più volte da Lorenzo Gergati, varesino di sangue purissimo, hanno un significato chiarissimo e incontrovertibile. Lorenzo infatti sente ancora, vivissimo, il trauma per essere stato scaricato senza motivi e senza ragioni plausibili da Pallacanestro Varese e, per usare termini psicologici, non ha ancora elaborato il tremendo “lutto”.

Probabilmente non lo supererà mai del tutto. Ed è un vero peccato che Lollo, classe 1984, playmaker di talento e ordine, penultimo prodotto “Made in Varese” a calcare da protagonista i parquet della massima serie – l’ultimo in ordine cronologico è ovviamente Matteo Librizzi -, debba portarsi dentro un peso così grande e un ricordo così gravoso che, in qualche modo, “disturbano” un percorso cestistico comunque bello, soddisfacente, ricco di emozioni e momenti positivi. Un percorso iniziato quando Lollo era praticamente in fasce…

“A Varese – dice Lorenzo, oggi direttore sportivo al Basket Lumezzane in BNazionale -, associare il cognome Gergati alla pallacanestro è un fatto automatico, naturale, e i veri appassionati di basket conoscono benissimo le vicende della famiglia Gergati con Pierangelo, mio padre, Roberto e Beppe i miei zii, che hanno giocato tutti ad alto livello e i miei fratelli Tommaso classe 1983, e Francesco, classe 1987. Quindi, non essendo contemplati altri sport inizio a giocare nel minibasket della Robur et Fides e qualche anno dopo, complice una fusione a livello giovanile, passo al neonato Campus”

In quel periodo si crea l’eccellente gruppo-’84: una formazione giovanile vincente come poche altre…
“Mamma mia, che stagioni e che meravigliosi ricordi mi legano a quella squadre che – esclama Lollo ancora emozionato – prima di tutto sono quasi interamente formate  da ragazzi di Varese e dintorni: io, Cecco, Moraghi, Riva, Cola, Colombo e pochissimi “stranieri” vedi Jack Ucelli e Federico Ponchiroli i quali si sentono più varesini di noi. Tutti ragazzi che vivono per il basket e, aspetto importantissimo, siamo  tifosi innamorati persi della Pallacanestro Varese. Chiaramente questo senso identitario rappresenta un fortissimo legame che ci dà un’ulteriore spinta per stare insieme e, non a caso, il nostro motto, urlato sempre con grandissimo orgoglio è: “Noi siamo Varese!””.  

In un bel “mix” tra passione e talento, qualità e “fede”, arrivano anche i risultati
“Risultati oggettivamente clamorosi perché per il livello giovanile siamo discreti giocatori, ma non ci sono fenomeni con la carriera da predestinato in serie A e tra i cosiddetti “esperti” godiamo di scarsa considerazione. Lo scarso credito funziona da “benzina” perfetta per alimentare le nostre altissime motivazioni e sempre partendo dalle retrovie prima conquistiamo a sorpresa lo scudettino Cadetti, poi, ancora più sorprendente, quello Juniores”.

Perché più sorprendente?
“Perché nelle finali nazionali disputate a Latina viviamo il nostro momento magico, spazziamo via uno dopo l’altro tutti gli avversari e battendo nettamente in finale la Virtus Siena conquistiamo il secondo scudettino, mentre io, ciliegina sulla torta, mi porto a casa anche il premio come MVP delle finali nazionali”.

Proprio quella vetrina di grande visibilità ti spalanca le porte per quella che sarà la tua lunghissima, e importante, carriera senior poiché, è giusto sottolinearlo, tu sei stato l’unico ad arrivare al vertice
“E’ vero, sono stato l’unico e un po’ mi dispiace perché se consideriamo impegno, passione, sudore e sconfinato amore per il gioco, tutti i miei compagni avrebbero meritato molto di più delle serie minori. Per rimanere in tema, credo che Jack Ucelli avrebbe potuto fare tranquillamente il professionista almeno in serie B1 e, allo stesso modo, Paolo Cecco e Federico Ponchiroli, che hanno fatto parte di tutte le nazionali giovanili avrebbero avuto le loro “chance”. Invece, per quel che mi riguarda, subito dopo Latina ricevo tantissime offerte, ma le rimando tutte ai mittenti perché la priorità è finire il Liceo Scientifico a Varese. Inoltre, ritenendomi ancora acerbo per il salto tra i senior, scelgo di restare a casa e fare la gavetta in B2 alla Robur allenata da coach Cedro Galli insieme a compagni di alto livello e amici come Vasini, Barantani, Corti, Coerezza, Premoli e altri ancora. Solo al termine di quell’annata preparo finalmente la valigia per affrontare, a Vigevano in serie B1, il primo step da professionista in una stagione che si sviluppa benissimo con diversi partitoni da 30 punti e si conclude con il premio come miglior giovane della categoria e la convocazione nella Nazionale Sperimentale, una selezione azzurra che comprende i migliori prospetti”.

Dopo Vigevano, cosa succede?
“La mia idea è quella di alzare ancora il livello, ma commetto il primo errore della mia carriera e anziché andare a Montegranaro da coach Pillastrini che mi vuole a tutti i costi come uno degli attori protagonisti del progetto-Montegranaro, firmo un quadriennale con la Pallacanestro Biella in serie A1”.

Come mai reputi un errore la “firma” biellese?
“Semplicemente perché fisico e atleticamente non sono pronto per affrontare la massima serie. Ho 19 anni ma rispetto ai sei americani o a Di Bella che fisicamente è un giocatore impressionante, faccio la figura di un bambino gracile e indifeso. Così fatico come una bestia ad ingranare e a trovare spazi in una squadra che, peraltro, in lotta per la salvezza non può permettersi il lusso di dare minuti ai giovani. Quel primo anno mi costringe a guardare in faccia la dura realtà e a lavorare come un matto in palestra per cercare di riempire il gap che mi separa dai giocatori veri. Coach Ramagli apprezza i miei sforzi e mi conferma anche per la seconda stagione nella quale però le cose girano anche peggio perché io mi sento pronto e da giovane un po’ presuntuoso vorrei giocare e dire la mia. Ma, col senno di poi e tanta saggezza in più devo riconoscere che in quella Biella, molto forte che va “sparata” ai playoff, spazio per me giustamente ce n’è poco. A quel punto, un po’ deluso, chiudo l’esperienza biellese e i dirigenti piemontesi mi girano in prestito in A2 a Pavia in una squadra nella quale riprendo confidenza col parquet e, letteralmente, rifiorisco disputando un campionato più che positivo: 19 minuti e 7 punti di media in una squadra che, contro ogni previsione, dopo il settimo posto  in stagione regolare, nei playoff arriva a giocarsi la finalissima per salire in A1 perdendo 3 a 1 contro la corazzata Scavolini Pesaro. Dopo Pavia vado per una stagione a Lumezzane in B1 e finalmente, squillino le trombe, arriva la stagione 2008-2009,  quella del mio ritorno a Varese”.

Squillino le trombe, addirittura…
“Libero di non crederci, ma il giorno in cui ho firmato per Pallacanestro Varese è il secondo più felice della mia carriera da giocatore perché, ovviamente, il più felice in assoluto è l’indimenticabile 26 aprile 2009, ovvero il giorno in cui battendo Veroli 80-71 in un palazzetto di Masnago “bollente” conquistiamo la promozione in A1″.

Partiamo dall’inizio: come arrivi a Varese?
“Torno nella mia città grazie alla proposta del “solito” Pillastrini che, come ho già avuto di dire, è stato il mio mentore sempre presente nella mia carriera. Coach “Pilla” con una telefonata mi dice: “Lollo io ho firmato per Pallacanestro Varese e, adesso, voglio proprio vedere che scusa ti inventerai per dirmi di no…Infatti, non avendo scuse mi accordo immediatamente con Cecco Vescovi e mi ritrovo in biancorosso pronto a giocare da protagonista al fianco di giocatori “clamorosi””.

In che senso “clamorosi”?
“Beh, nemmeno sforzandomi riesco a trovare un’altra definizione per giocatori come Galanda e Childress, illegali in A2, e altri compagni di squadra del calibro di Nikagbatse, Cotani, Martinoni, Passera, Dickens. Un organico di lusso, assommato all’elemento fortuna come sempre indispensabile, ci permettono di vivere un’annata fantastica e, per me, indimenticabile come può esserlo solo una stagione in cui vinco un campionato a casa mia, spesso giocando bene, davanti ai miei amici e tifosi e, ciliegina, alla fine festeggiando anche la convocazione in Nazionale. Meglio di così, immagino, c’è solo il Paradiso”.

Il Paradiso arriva qualche mese dopo con la A1, giusto?
“In realtà l’annata in A1 vuoi per gli infortuni, vuoi per le difficoltà nel trovare un assetto tattico adeguato alla categoria superiore – io e Marchino Passera siamo gli unici italiani in un reparto esterni composto da 5 stranieri: Childress, Morandais, Thomas, Mc Grath, Reynolds -, è certamente più complicata. Questo, però, è solo il primo motivo di disappunto di una vicenda che qualche mese dopo diventerà davvero deludente e umanamente dolorosissima”.

Cioè? Spiegati meglio, per favore.
“Tutto accade qualche settimana dopo la fine del campionato quando sorprendentemente, con mio indicibile dispiacere, Pallacanestro Varese, senza spiegarmi il motivo, non mi riconferma. Soldi? Scelta tecnica? Altre ragioni? La spiegazione, mai ricevuta, è dentro al silenzio tanto deludente quanto assordante di quei giorni. Da parte mia posso affermare che, pur di rimanere a Varese, a casa mia, nella società dove sono cresciuto e nella squadra per la quale speravo di essere nominato Capitano avrei rinunciato a dei soldi, avrei fatto anche il quindicesimo giocatore oppure, come si usa dire, mi sarei tagliato un braccio. Tutto ciò perché Pallacanestro Varese rappresentava il mio sogno di bambino diventato realtà, la mia NBA, la mia medaglia d’oro alle Olimpiadi. Insomma: il massimo che mi potesse capitare, la vetta dei miei desideri. Proprio per questo motivo ogni volta che parlo della fine della mia storia con Pallacanestro Varese provo una sorta di dolore fisico e un disagio psicologico difficile da spiegare a parole. Ad ogni modo la brusca fine del rapporto con Varese, che evidentemente solo io avevo idealizzato, apre i miei occhi ingenui e mi fa dire: “Sai che c’è? Se l’ambiente della pallacanestro si è trasformato in questa roba qua, ovvero un mondo in cui i sentimenti valgono zero, da qui in avanti farò solo i miei interessi e giocherò solo per chi mi garantirà il contratto più lucroso. E così faccio visto che mi accordo con Brescia in B1, cioè due categorie sotto, firmando un biennale a cifre davvero importanti”.

Da quel momento inizia la terza parte della tua carriera: quella di Lollo Gergati, talismano portafortuna per vincere altri campionati…
“Al primo anno con Leonessa Brescia vinciamo subito il campionato e andiamo in A2 cantando e il secondo anno facciamo i playoff. Dopo Brescia seguo di nuovo coach Pillastrini che nel frattempo si è accasato a Torino in B1. Nei tre anni torinesi le cose vanno benissimo. Primo anno: facile promozione in A2. Secondo anno: semifinale playoff, persa, contro Trento. Terzo anno: agevole vittoria del campionato di A2 con promozione in A1. Ovviamente, devo lasciare Torino perché, come sempre, in A1 non c’è posto per le guardie italiane. Così vado a Mantova con coach Martelossi, persona squisita e tecnico eccellente, per giocarmi due buonissime stagioni, ma poco fortunate per i risultati. Dopo Mantova firmo per altri due anni con Tortona in A2 sposando il progetto in grande crescita dei piemontesi. Con Tortona alzo un trofeo, la Coppa Italia di categoria, e partecipo ad una semifinale playoff”.

A questo punto arriviamo al tuo clamoroso ritorno a Varese, questo giro però in maglia Robur et Fides…
“In quel periodo, primi mesi del 2019, avendo iniziato la mia attività lavorativa nel campo immobiliare lascio la pallacanestro professionistica e accetto con grande entusiasmo l’offerta del mio amico Claudio Corti: un triennale con la Robur. Corti ha intenzione di rilanciare in grande stile la R&F, ma per una serie di cause – tanti infortuni, squadra con poca chimica, il covid e altro -, le ambizioni globali finiscono subito azzerate e, lo ammetto e ne sono dispiaciuto soprattutto per Popo Corti, nel caso di specie ho le mie colpe”.

Quali colpe?
“Una grande colpa: sono un giocatore molto, molto sulla via del tramonto e, come si dice in gergo, ho troppi chilometri nelle gambe e nella testa. Ormai non corro e non salto più e a parte qualche sporadico partitone a 20 punti non ho granché da offrire alla causa roburina da offrire e dopo due stagioni abbastanza brutte esco dal contratto per andare a Saronno, ultima tappa della mia carriera. Con la società saronnese mi trovo benissimo perché, lo sanno tutti, il presidente Ezio Vaghi, il g.m. Marco Novati e coach Renato Biffi hanno creato un ambiente stupendo, eccezionale dal punto di vista umano e tecnico. Tuttavia, a causa di problemi fisici importanti, ernia al disco, il mio apporto è limitatissimo. A Saronno infatti gioco solo 5 partite e al termine dei playoff pianto nel muro il classico chiodo e a 38 anni suonati vi appendo finalmente le scarpe da gioco”.

Una bellissima vicenda sportiva e umana nel corso della quale, caro Lollo, alla fine nei hai vinti di campionati…
“In carriera senior ho fatto poker: uno a Varese, uno a Brescia e due a Torino, ma nel conto devi aggiungere la Coppa Italia di LNP conquistata con Tortona e la Coppa di Lombardia vinta con Saronno. Non male se pensi che tanti miei colleghi, anche più bravi e famosi di me, non hanno mai assaporato questi momenti”. 

Adesso, come sai bene, chiudiamo questa lunga chiacchierata con le tue classifiche partendo dalla tua squadra della vita…
“Come ho già evidenziato, ho avuto la fortuna di giocare in numerose squadre vincenti e al fianco di compagni di altissimo livello. Però la mia squadra della vita non può che essere la Cimberio Varese della stagione 2008-2009, quella che dopo un’amarissima retrocessione ha rimesso Varese sulla giusta carta geografica del basket. Quel gruppo, l’ho già detto, era composto da giocatori fortissimi che, in più, avevano capito che giocare a Varese e per Varese, onorando la sua storia era una cosa diversa da tutto. Imparagonabile. Avevano capito che giocare al palazzetto di Masnago “sold out” e con la folla in delirio metteva i brividi fin nelle ossa”.

E la squadra per il divertimento?
“In quintetto andiamo: io, i miei fratelli Tommaso e Francesco, Alessandro Amici e Cusin che, a margine, considero il mio quarto “Bro”. “Cuso” è stato mio compagno inseparabile a Biella e, più tardi, amico della vita al punto che Marco è stato mio compagno di nozze. Dalla panchina partono invece ragazzi di grande simpatia come Stefanelli, Mancinelli, Minessi, Mirza Alibegovic e, a chiudere, Gek Galanda come cambio di extra lusso”.

L’avversario più rognoso?
“Milos Vujanic, un talento pazzesco abbinato ad una velocità di esecuzione incredibile. Un millimetro sotto colloco Vrbica Stefanov. Due giocatori-incubo che mi sognavo la notte”.

Chi sono i tuoi allenatori della vita?
“A livello giovanile sicuramente Andrea Schiavi, bravissimo coach, e Cedro Galli, persona di valore, a cui voglio molto bene e considero uno di famiglia. Invece per il livello senior la mia scelta premia coach Stefano Pillastrini, il miglior allenatore che ho avuto. Eccellente sotto il profilo tecnico e impareggiabile dal lato umano”.

Il tuo compagno più forte?
“Come compagno di squadra scelgo Gek Galanda, giocatore straordinario dotato di intelligenza cestistica sopraffina. Invece, permettimi questa digressione, come “top dei top” vado dritto su Andrea Meneghin che per me, senza esagerazione, è un “Dio” della pallacanestro e il giocatore italiano più forte di tutti i tempi”.

Segui ancora Pallacanestro Varese?
“Ormai non vado al palazzetto da tanti anni, ma sono informato su tutto quello che succede e in un mix tra preoccupazione e dispiacere seguo la situazione. Poi a margine, col cuore da tifoso, faccio fatica a capire alcune scelte”.

Per esempio?
“Per esempio, forse perché mi ci rivedo, non capisco perché i dirigenti anziché prendere Sykes, non abbiano fatto “All-In” su Librizzi che, a mio modesto parere, è uno dei pochissimi che gioca con orgoglio, sputando sangue e dando l’anima per una squadra che, a quanto vedo e leggo, è abbastanza sprovvista di queste qualità. Mah, scelte inspiegabili a danno di un ragazzo che dovrebbe essere senza se e senza ma il simbolo di Pallacanestro Varese. Ma, del resto è comprensibile, come puoi pretendere che un presidente argentino, dirigenti americani e giocatori stranieri “usa e getta” con mille passaporti abbiano a cuore, e sentano nel profondo il valore, la storia gloriosa e la tradizione eccezionale di Pallacanestro Varese?”.     

Massimo Turconi

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