Andiamo alla scoperta del Judo Bu-sen Luino, presso la palestra Emotion di Germignaga, in cui il Maestro Marano, i suoi allievi Roberto Lachin, Elena Travaini, Andrea Gozzi e sua madre Cristina Dedè, ci guidano alla scoperta del Judo paralimpico, in una realtà nel quale gli atleti disabili e normodotati si allenano insieme, all’insegna dell’integrazione.

Maestro Marano, come si avvicinò al Judo?
“Iniziai a praticarlo nel 1967, ispirandomi a mio fratello Michele Marano, già in precedenza judoka, iniziando nell’allora Judo Club Varese, allo stadio Franco Ossola. Ero un ragazzo molto magro e timido ma mi piaceva combattere e del Judo apprezzavo in particolare le tecniche. La mia prima esperienza fu nel Bu-sen di Milano, allora club più forte d’Italia, con il Maestro Cesare Barioli, che a sua volta, invitò il Sensei francese Konbe, il quale fu il primo, negli anni settanta, a insegnare il Judo ai disabili psichici, mediante degli esercizi motori. La vera essenza del Judo è l’inclusione e la nostra didattica si basa sul metodo analitico di Konbe, che consiste nel mostrare al l’atleta disabile la tecnica poco per volta, scomponendola con dei movimenti di braccia e gambe, allo scopo di fargliela assimilare più facilmente. Le tecniche del Judo, insegnate con il metodo analitico, aiutano i disabili nello sviluppo dell’intelligenza motoria, nella socializzazione e nella coordinazione. Nella mia lunga carriera ho conosciuto anche il Sensei Gianfranco Sassi di Lugano, dato a tutti la possibilità di praticare il Judo ed ho sempre pesnato che gli atleti disabili dovrebbero sempre allenarsi con i normodotati, come principio d’integrazione. Gli affetti da sindrome di Down, ad esempio, hanno bisogno del contesto, dell’esempio pratico e per loro è fondamentale il contatto fisico”.

Andrea Gozzi

Andrea Gozzi, cintura nera, quale katà hai svolto?
“Il Nage-No katà, era molto difficile e ho studiato molto per poterlo imparare, e qui ho sempre trovato degli amici”.

Signora Cristina Dedè, in quali aspetti il Judo ha aiutato suo figlio?
“In generale l’ha reso più socievole, consolidandolo anche sul piano fisico, muscolare ed educativo; l’ho visto sempre più inserito nel gruppo”.

Elena Travaini, in cosa consiste il metodo di “Judo al buio”?
“Sono ipovedente, insegnante di danza, e ritengo che il Judo sia anche connessione di persone, nella fiducia e nel rispetto reciproco. Questa metodologia che ho codificato, consiste nell’apprendimento delle tecniche non più a livello solo visivo, bensì a livello corporale e sensoriale, in cui il Maestro spiega tutto a voce e privilegia il contatto fisico. In allenamento, gli atleti sono tutti bendati e senza vedere, si impara ad intuire le tecniche d’attacco, di difesa e anche a percepire con il tatto le prese sul judogi. Gli atleti possono localizzare la presenza dell’ avversario grazie ad un battito di mani. Questo progetto, a livello internazionale, prevede anche lo svolgimento dei randoli, i duelli di judo, alla fine della fase di preparazione ed è rivolto a persone di tutte le età ed a tutte le cinture. Il “Judo al buio” è stato adattato anche nei confronti degli autistici. Nel complesso, ai bambini, è insegnato come cadere correttamente, mediante degli esercizi ludici”.

Roberto Lachin, come avviene la preparazione dei judoka disabili alle gare?
“Ho quarantatre anni, sono non vedente e grazie al Maestro Marano mi sono trovato bene sin dall’ inizio. La nostra palestra si chiama Bu-sen, ossia scuola specializzata nelle arti marziali. Il Judo è anche una sfida contro sé stessi e i propri timori; Jigoro Kano, il suo fondatore, osservando un salice piangente, capì come sarebbe stato possibile usare la forza degli altri. Il maggior pericolo per i judoka non vedenti è la caduta all’ indietro e a tutti è insegnato il modo per poter cadere in sicurezza. In allenamento svolgo gli stessi esercizi che eseguono i normodotati. I duelli, in gara con gli arbitri, sono noti come gli shiai. In Francia e in Giappone i non vedenti gareggiano contro i normodotati, con le prese già fatte, mentre qui in Italia, per ora, ciò si verifica solo negli eventi di promozione sportiva. Negli shiai tra due non vedenti, è previsto anche l’ippon, allo scopo di vincere l’incontro, il quale vale di più, se è ottenuto da un judoka sia non vedente che non udente. Ricordo che una judoka né vedente e né udente, si qualificò alle Paraolimpiadi a Tokyo nel 2021. Sono stato due volte vice-campione nazionale italiano di Judo Paralimpico ed ho vinto anche il Premio Internazionale Giuseppe Sacca, per aver presentato il progetto di “Judo al buio”.

Maestro Marano, come svolgete gli esami?
“Il Judo può essere anche concepito come una ginnastica, allo scopo di far cadere l’ avversario, controllandolo sulla schiena, per ottenere l’ippon. Una cintura bianca, per ottenere il livello successivo, deve dimostrare di sapersi coordinare, cadere, ed eseguire correttamente quattro tecniche in piedi e quattro a terra. Siamo affiliati alla FIJLKAM e la cintura nera si può raggiungere svolgendo un esame di katà, oppure partecipando a delle gare nazionali. Nel Judo, il termine katà significa modello tradizionale e si valutano le posizioni, respirazioni e tradizioni, che favoriscono la crescita del judoka. Il Judo, codificato da Jigoro Kano, figlio di un venditore benestante di sakè, che studiò il Ju-jitsu, potrà ancora evolversi, grazie all’ apprendimento di quelle tecniche impiegate in gara da parte dei celebri campioni”.

Come il Judo può giovare agli atleti iperattivi ed a quelli autistici?
“Negl’iperattivi stimola l’autocontrollo,regolando l’eventuale aggressività, mentre negli autistici, che si isolano per conto loro, tende a far acquisire disinvoltura e fiducia. Secondo il suo fondatore Jigoro Kano, è la via dell’adattabilità e della cedevolezza”.

Nabil Morcos

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