
Settimana particolare per il Varese Femminile, reduce dalla prima sconfitta stagionale: il 2-1 contro la Doverese ha inevitabilmente lasciato in eredità una pesante dose di amarezza (soprattutto per come è maturato quel risultato), ma domenica ci sarà subito il banco di prova per eccellenza in trasferta contro l’imbattuta capolista Erbusco. Di conseguenza, il gruppo di Christian Faccone è tornato a lavorare con ancor più entusiasmo per convertire il dispiacere in energia positiva da mettere in campo contro la corazzata bresciana.
In questa squadra, però, non c’è solo (tanto) lavoro sul campo. C’è molto di più. E in un gruppo del genere non poteva mancare la storia di chi il calcio lo vive e lo insegue nonostante tutto. Morgana Roversi vanta un prestigioso curriculum maturato nelle giovanili del ChievoVerona, ma il difensore classe 2005 è soprattutto uno degli esempi più concreti di cosa significhi tenere duro. Originaria di Pegognana (Mantova), la sua carriera è stata bruscamente frenata da un brutto infortunio al ginocchio e, trasferitasi a Varese per ragioni di studio, dallo scorso marzo è diventata parte integrante del gruppo biancorosso.
La condizione non può ancora essere delle migliori, ma i pochi minuti giocati due settimane fa contro il Castello Città di Cantù sono stati quasi una liberazione. In questa prima parte di stagione, infatti, la classe ’05 ha dimostrato tanta caparbietà nel voler perseguire il suo obiettivo dimostrando, prima di tutto a sé stessa, che la sua indiscussa passione per il calcio può ancora darle soddisfazioni. Consapevole della oggettiva difficoltà che una rosa ampia e competitiva può presentare, ha rinunciato ad altre proposte per restare in gruppo e giocarsi le sue chance. “Sto facendo un gran sacrificio – racconta Roversi – perché non tutte sarebbero disposte a restare in panchina senza avere riscontro sul campo. Ma so che per tornare ai miei livelli ho bisogno di tempo, e questa è la squadra giusta per farlo”.
Da dove inizia la tua storia nel mondo del calcio?
“In realtà da piccola facevo ginnastica artistica, ma la passione per il calcio c’è sempre stata e ad un certo punto ho iniziato nella squadra del mio oratorio. Finché ho potuto ho giocato nelle annate miste, poi il presidente del Mozzecane mi ha chiamata e, nonostante gli oltre 40 minuti di strada, per un paio di stagioni ho giocato lì. Dopodiché è arrivata la possibilità del ChievoVerona: due anni in Under 17 e spesso aggregata all’U19. Anche in quel caso non sono mancati i sacrifici e, in tal senso, un grande grazie va rivolto a mamma Samuela e papà Alessandro perché senza di loro non avrei potuto far nulla. A livello sportivo, comunque, è stata un’esperienza pazzesca: affrontare squadre come Juventus, Inter o Hellas ti fa crescere in fretta. Io in U19 ero la più piccola: tanta panchina, ma anche tanta esperienza. A 16 anni giocare contro la Juve… tanta roba. E sì, tifo Juve! E il mio idolo non può che essere Del Piero”.

Poi lo stop. Cosa è successo?
“Facendo alcuni esami è emersa una predisposizione del ginocchio che, se sovraccaricato, si gonfia e non regge. In più, mio papà è stato male, e per fortuna ora sta meglio. Non potevo più fare avanti e indietro, avevo bisogno di fermarmi. Poi si è presentata l’opportunità Varese: sono qui per l’Università, studio psicologia, e tutto si è incastrato”.
Come ti trovi a Varese, tra città e squadra?
“La città è davvero bella, anche se la vivo poco: Università la mattina, il pomeriggio lavoro e la sera mi alleno… è dura, ma mi piace. Con il gruppo mi trovo benissimo: anche la più timida del mondo qui si sente parte di qualcosa. Chi sta in panchina crede in te anche più di quanto tu creda in te stessa. È una cosa rara. E il mister? È un tecnico davvero preparato in tutto e per tutto: non improvvisa mai. Pian piano sta entrando sempre di più in sintonia con noi”.
Sei rientrata in campo nel finale di Castello Città di Cantù: com’è stato dopo tre anni?
“Una botta emotiva (sorride, ndr). Quando stai così tanto lontana dal campo è inevitabile che tu perda fiducia, quella che ritrovi solo giocando. I primi minuti sono stati pesanti, poi la testa si svuota e fai quello che devi fare. Le compagne sono state eccezionali perché mi hanno detto di non pensare agli errori, ma solo di giocare: è grazie a loro se l’ho vissuta bene”.
E adesso come ti senti?
“Bene. L’obiettivo è ritrovarmi, crescere individualmente e dare una mano alla squadra. Ho tanta voglia di tornare quella di prima”.
Veniamo al presente: la sconfitta con la Doverese è stata immeritata?
“Secondo me sì. Nessuna delle due squadre ha dominato sull’altra, il campo era impraticabile e abbiamo messo grinta su ogni pallone; spiace aver preso gol del genere. Resta l’amaro in bocca, perché non ci accontentiamo mai. Ma useremo questa delusione per lavorare meglio”.
Domenica c’è l’Erbusco: come si batte una corazzata così?
“Mi dicono che siano davvero forti, quasi fuori categoria. Io non le conosco direttamente, così come non conoscevo le avversarie affrontate fin qui: diciamo che ci presentiamo ad ogni match con la mentalità del “vediamo cosa trovo”. Rispetto sì, paura no”.
Quali sono le potenzialità del Varese?
“Possiamo puntare in alto, ma senza montarci la testa. Piedi per terra come abbiamo sempre fatto: lavoriamo con serenità e la consapevolezza di dover superare qualsiasi delusione possa arrivare. Il campionato è lungo: se restiamo unite, possiamo fare grandi cose”.
Matteo Carraro






























