29 maggio 1985. Trentacinque anni fa la notte più buia della storia del calcio allo stadio Heysel di Bruxelles. Nel maledetto settore Z, in cui persero la vita trentanove persone – trentadue delle quali italiane – c’era anche Alessandro Colombo: tradatese all’epoca 21enne tifoso bianconero, riuscì a sopravvivere a una delle tragedie umane più terribili, consumatasi negli attimi immediatamente precedenti la finale di Coppa Campioni tra Juventus e Liverpool. Da quel giorno, per lui come per migliaia di altri appassionati, assistere ad una partita non è stata più la stessa cosa.
“Siamo arrivati a Bruxelles nel pomeriggio e ci siamo diretti subito allo stadio – racconta Alessandro, giornalista responsabile della comunicazione di un ente pubblico, già collaboratore di diverse testate locali e nazionali, che di quella serata conserva ancora il biglietto -. Uno stadio vecchio con le gradinate tutte rotte, sassi e pietre a terra ovunque. Abbiamo atteso nel prato davanti all’ingresso sotto il sole assieme agli inglesi che arrivavano con casse di birra e bevevano. Quando siamo entrati allo stadio erano già ubriachi”. Le condizioni per garantire sicurezza sugli spalti erano del tutto inesistenti: una piccola e fragile rete non è bastata a dividere le ordinate famiglie e i giovani faziosi della Signora posizionati nel maledetto settore Z dagli irrequieti supporters dei Reds.
“Io, già reduce dalle trasferte di Atene, finale di Coppa Campioni 1983 persa 0-1 con l’Amburgo, e di Basilea, finale di Coppa delle Coppe 1984 vinta con il Porto (2-1), ero arrivato a Bruxelles in pullman da Tradate assieme ad altre 50 persone. Dodici ore di viaggio”, di speranza perché quella per i tifosi juventini poteva essere la serata del riscatto. Perché quella era la Juve più forte di tutte, incoronata dai tifosi stessi, allenata da Giovanni Trapattoni, appesa alle prodezze di Michel Platini che di fatto quella serata la deciderà, con un rigore che spiazzò Bruce Grobbelaar, il portiere giocoliere che non avrebbe faticato ad ammettere l’innocente imbarazzo di quei novanta minuti, tutt’altro che una finale. Fu piuttosto un atto di estrema carità verso dei propri tifosi. “Giochiamo per voi”, scandì Gaetano Scirea, capitano della Juventus, prima del match, prima di prendersi la responsabilità di sollevare il trofeo più pesante di tutti, mentre la passione di migliaia di tifosi, travolta dall’irreparabile, giaceva al suolo indifesa.
“Un’ora prima dell’inizio della partita – il calcio d’inizio era stato fissato per le 20.15 – gli inglesi hanno cominciato a lanciare verso di noi bottigliette di vetro piene di terra e sassi ad altezza uomo. La folla impaurita non ha reagito ma ha cominciato ad indietreggiare”. Quasi un invito per gli hooligans che in un tragico delirio di onnipotenza prendevano coraggio per caricare nuovamente.
“Tutti si sono ammassati verso il basso della curva creando una calca tremenda e schiacciando le persone. Io sono rimasto verso l’alto della tribuna e ho cercato di scavalcare il piccolo muretto per uscire dallo stadio. Ovviamente la folla era tanta e ti tiravano giù per poter salire loro e scappare”. È quello il momento in cui l’istinto di sopravvivenza, innato nell’essere umano, fa brillare nella mente sconvolta di Alessandro un ultimo lampo di astuzia. “Non riuscendo a scavalcare ho deciso di provare ad uscire dalla porticina d’ingresso – continua lui -. Mi sono liberato della sciarpa che avevo al collo e per raggiungere la porta d’uscita sono andato verso gli inglesi che avanzano. Non so come e non so perché ma sono passato in mezzo a loro senza che nessuno mi toccasse. Così ho raggiunto la porta d’uscita dove nel frattempo stavano entrando i poliziotti a cavallo”. Un dettaglio che pare quasi anacronistico, anche a distanza di anni, ma che dipinge con realistica precisione un ritratto di perversa assurdità. La sconfitta del genere umano trasmessa in mondo visione.
Scorre di fronte ai suoi occhi la materializzazione di un incubo che nulla ha a che fare con il calcio. E nella confusione di istanti interminabili c’è solo una cosa da fare: salvare la pelle e cercare di informare i propri cari, che verranno raggiunti dalla notizia con inevitabile ritardo.
“Una volta fuori dallo stadio sul prato c’era gente insanguinata, gente che piangeva e gente che vagava senza sapere dove andare. Ho ritrovato alcuni miei amici e insieme ci siamo recati verso il pullman siamo saliti e abbiamo aspettato fino a dopo mezzanotte prima di poter ripartire verso casa. Quattro ore in pullman sentendo la radio che annunciava i morti e aspettando la fine della partita e l’uscita dei tifosi inglesi prima di poter ripartire. Altre dodici ore di viaggio in assoluto silenzio. Con tanta paura ma una consapevolezza: in fondo – riflette Alessandro – noi c’eravamo salvati tutti”.
Alessio Colombo