Avevo chiuso la prima puntata con le 2 stoppatone assestate da Stefano Bechini sulla faccia di Chuck Jura, descrivendo poi lo sguardo stranito del pivot USA e un paio di espressioni non proprio da “gentleman” usate dal lungo che, allora, si parla della stagione 1977, giocava nella Xerox, l’altra squadra di Milano. Definirla “seconda squadra” sarebbe ingeneroso, ma soprattutto sbagliato sotto il profilo strettamente cronistico perchè in quegli anni, risultati alla mano, la squadra più importante era proprio la Pallacanestro Milano 1958.

Comunque, tant’è, la palla torna nelle mani del nostro Bechini che prosegue il racconto dicendo: “Come ho detto nella prima puntata, coach Gamba, apprezzando i miei progressi mi regala sempre più spazio ed io nelle prime settimane del 1977 vivo un periodo celestiale durante il quale metto a referto tre gare consecutive in doppia cifra, nella partita contro la Virtus Bologna difendo bene sia contro Bertolotti, sia contro Villalta e festeggio il raggiungimento della maggiore età con i complimenti dei miei compagni più esperti e famosi”.

Ecco, i tuoi compagni: tu che hai avuto il privilegio di conoscerli bene, cosa puoi raccontare al riguardo?
“Prima di tutto ti confermo che quella era una squadra osannata, seguita, ammirata e invidiata in tutta Europa. Può apparire strano, ma in alcune nazioni la visita della Pallacanestro Varese era attesa alla stregua di un evento e intorno ad un giocatore come Dino Meneghin c’era un’atmosfera di “venerazione” che non trova riscontri con altri giocatori europei. Dino in Israele era trattato e riverito come una grandissima “star” per lui si muovevano centinai di tifosi e tutti i media – giornali, televisioni, radio- lo assediavano come adesso capita a Lionel Messi, Roger Federer, Lewis Hamilton. Insomma, comportamenti che si tributano solo ai “miti” dello sport. La stesse scene si vedevano in Russia, Spagna, Francia e così via. E Dino, vuoi per la sua leggendaria grinta e il suo incredibile carattere si meritava tutte queste attenzioni. Il “Menego” però era un compagno di squadra favoloso, sempre il primo a tirare il gruppo quando bisognava mettersi a lavorare, sempre il primo a scherzare e ad addolcire la tensione quando occorreva. Forse – commenta Stefano -, perchè dentro di sè albergava l’anima romantica del grande cantante”.

In che senso “grande cantante”?
“Perchè, non sai che Dino aveva una bellissima voce? Meneghin, pura verità, aveva, penso abbia ancora, una voce calda e avvolgente. Nel suo repertorio che, puoi chiedere in giro, è abbastanza ricco, spiccava “Yesterday” del Beatles che, a mio modesto parere, nella versione del menego è anche meglio di quella di Paul Mc Cartney. Ti racconto questa “chicca”. Una sera, dopo cena, stavamo tutti insieme nel salone della musica allo Sheraton di Istanbul intenti ad ascoltare un bravissimo pianista e tra un brano e l’altro il musicista invitava i presenti ad esibirsi cantando qualcosa. Noi, consapevoli del valore di Meneghin, iniziamo a fare il tifo per lui e, praticamente, costringiamo Dino a prendere il microfono tra le mani. Menego si mette d’accordo col pianista e quando inizia ad intonare “Yesterday” il pubblico, saranno stati oltre cento gli ospiti dell’hotel, si zittisce all’improvviso. Quando Dino termina la sua esibizione tutti scoppiano in un applauso fragoroso e Meneghin, esattamente come sul parquet, “tira giù il teatro”. Il maestro al piano dopo avergli fatto i complimenti lo prega di conti e Dino, come un consumato interprete, concede il “bis” riscuotendo un successo clamoroso. Questa era Dino, vuoi aggiungere qualcosa d’altro?”.

E gli altri?
“Quando si dice che Bob Morse era un’incredibile macchina da canestri non ci si può rendere conto di quanto sia vera questa definizione. Morse, davvero, faceva sempre, sempre, sempre canestro grazie ad una meccanica di tiro spaventosamente perfetta e, soprattutto, grazie ad una concentrazione che non ho mai più visto in nessun altro giocatore. Una sera al termine dell’allenamento Bob mi chiede: “Ehi Stefano, puoi fermarti per aiutarmi a tirare “qualche” tiro libero?”. “Figurati Bob, è un piacere”. “Ok Ste, tiro qualche personale, al primo errore, smetto e andiamo in doccia”. Bob inizia a tirare e infila un libero via l’altro, senza mai sbagliare: 10, 20, 30, 40 e intanto la squadra juniores che doveva iniziare l’allenamento dopo di noi aspetta ai bordi del campo. Bob, imperterrito continua: 50, 60, 70, 80, 90 e intanto sono passati altri dieci minuti e gli junior, seppur incantati, vorrebbero allenarsi. Macchè, Morse prosegue il suo percorso netto: 100, 110, 120 finche oltre arrivato oltre quota 130 coach Gamba gli ordina di lasciare il campo e permettere così ai ragazzini di giocare. La stessa pazzesca precisione lo caratterizzava anche nel tiro da 2 e da una distanza che oggi sarebbe abbondantemente oltre la linea dei 3 punti. Con Zanatta che veniva agli allenamenti a bordo di un fantastico Maggiolone Cabriolet facevamo le gare partendo dalla linea di fondo avvicinandosi man mano alla linea di metà campo. “Zago” fino a 10 metri era davvero imbattibile, anche lui micidiale in termini di precisione. Poi, qualche volta, raramente, dal cerchio di metà campo riuscivo a spuntarla. Idem nelle gare contro Bisson che dagli angoli, ovvero da posizioni da cui non è semplice inquadrare il canestro, era un altro che non sbagliava mai. Di Iwan ricordo altre tre cose: la sua Jaguar color verde 4200 12 dodici cilindri da “ricco vero”; la pelliccia di visone, uguakle a quella di Jellini, che usavano durante l’inverno e la sua fenomenale elevazione da fermo. Al posto delle gambe aveva due molle che gli permettevano di schiacciare una dozzina di volte consecutivamente senza prendere la rincorsa. Un gatto, praticamente”.

Altre stranezze?
“Beh, Dodo Rusconi prendeva in giro Meneghin e lo sfotteva dicendo che lui era il vero pivot della squadra e per dimostrarglielo durante i primi dieci minuti di allenamento tirava solo in gancio sinistro oppure sfoderava una lunga serie di fondamentali spalle a canestro e diceva al Menego: “Impara, barbun!” Poi, se parliamo di stranezze, mi tocca dire di Charlie Yelverton, mio compagno di camera nella stagione 1977-1978. Charlie veniva in trasferta con due sassofoni e la sera in camera si metteva a suonare fino alla quattro del mattino. Solo che ai tempi Charlie non era ancora l’ottimo musicista che è diventato oggi e fracassava le “scatole” eseguendo per ore e ore noiosissimi esercizi con scale e accordi. Insomma, non si poteva sentire, però quello era lo scotto che io, essendo un giovane, dovevo pagare. Cosa che peraltro ho fatto volentieri perchè da Yelverton, giocatore clamoroso e con stile tutto personale, ho imparato tantissimo”.

Da giovane, però, nel 1978 hai messo insieme le prime esperienza importanti della tua carriera.
“In quell’annata coach Nico e coach Carlo Colombo trovano il sistema di farmi giocare parecchio ed io, come si usa dire, sono bravo nel farmi trovare pronto perchè esco dalla panchina e riesco quasi sempre a combinare qualcosa di buono cercando di rendermi utile prima di tutto in difesa. Tuttavia, quando capitava l’occasione buona, provavo a mettermi in evidenza anche in attacco e in diverso occasioni, anche in Coppa Campioni – vedi i 17 punti segnati a Mosca contro l’Armata Rossa -, portavo a casa la pagnotta e sullo scudetto conquistato nel 1978, magari scritta in piccolo, c’è anche la mia firma”.

Dopo Varese, come si sviluppa la tua vicenda da giocatore?
“Beh, ho giocato 15 stagioni da professionista tra serie A1, A2, B e B2 vestendo le maglie di Trieste, Pordenone, Treviso, Torino, Siena, Roma, Desio, Napoli, Avellino, Bergamo e, infine, alla Forti e Liberi Monza. Un bel percorso, devo dire, con tante tappe interessanti e il privilegio di aver fatto squadra insieme ad altri giocatori fortissimi. Uno per tutti? George Gervin, mio compagno al Banco Roma, inserito nella “Hall of Fame” e nominato tra i migliori 50 giocatori di sempre nella NBA. Uno che pur avendo segnato quasi 27 punti in NBA, brillava per umiltà e disponibilità. Giocatore incredibile e uomo di grandissime qualità”.

Prima di chiudere questa simpatica e lunga chiacchierata ti chiedo di stilare le tue classifiche “All-Time”. Partiamo da: il tuo quintetto italiano?
“Caglieris, Riva, Sacchetti, Bonamico e Dino Meneghin”.

Il quintetto straniero?
“Larry Wright, Dalipagic, Morse, Oscar, Mc Adoo”.

Il compagno di squadra più forte?
“George Gervin”.

L’avversario più difficile?
“Drazen Petrovic”.

La tua partita indimenticabile?
“Il mio record in carriera in campionato è 29 punti, mentre in Coppa Campioni sono arrivato a 18, ma il ricordo più bello è legato ad un derby gipocato nel 1978: Cinzano Milano-MobilGirgi Varese giocato al palazzone di San Siro, quello crollato per neve, e vinto da noi di Varese 101-100 col mio canestro decisivo”.

Le stagioni da ricordare?
“Certamente le due conPallacanestro Varese, che mi hanno lanciato, e quella dell’85-’86 giocata a Siena e chiusa ad oltre 16 punti di media”.

Gli allenatore che ricordi con maggior piacere?
“Alessandro Gamba e Dido Guerrieri”.

Alla fine, cosa pensi di aver lasciato al mondo del basket?
“Tantissimo impegno, passione, voglia di giocare e di dare tutto me stesso. Di fatto, le qualità per cui i tifosi mi hanno sempre apprezzato. A Roma, per dire, un gruppo di tifosi del Banco aveva creato in mio onore la “Curva Rambo Bechini”, identificandomi con un personaggio, Rambo, sempre pronto a lottare e a battersi. Idem a Siena e in seguito a Desio. Insomma, la mia è stata una bellissima avventura e se proprio devo dirlo ho il rammarico che sia volato tutto così in fretta. ‘Sti quarant’anni sono passati troppo in fretta, accidenti!”. 

Massimo Turconi