Ventiseienne di Malnate, città in cui fino allo scorso maggio ha ricoperto il ruolo di consigliere comunale, Marco Damiani è tornato in questi giorni da New York, dove risiedeva da sette mesi per motivi di studio e lavoro. Circa tre settimane dopo l’arrivo del Covid in Italia, gli Stati Uniti sono stati duramente colpiti da questa emergenza, arrivando a registrare il maggior numero di casi e decessi a livello mondiale. Marco racconta i dettagli del lockdown, l’atmosfera surreale di una grande metropoli all’improvviso deserta e le difficoltà del viaggio che l’ha riportato in Italia.

Quali erano i tuoi programmi prima dell’emergenza Covid?
“Mi ero trasferito a New York dopo la laurea magistrale in HR Management per fare un’esperienza internazionale. Avevo appena finito un corso avanzato di Business English e stavo collaborando come team leader nella mia stessa scuola. Il mio compito consisteva nell’accogliere gli studenti provenienti da tutto il mondo, amalgamare il gruppo e organizzare tour esplorativi della città. Tramite i social facevo anche da intermediario tra la scuola e i potenziali studenti italiani interessati a frequentare un corso. Dopo questa esperienza avrei dovuto iniziare uno stage a tempo pieno in una multinazionale, che è stato posticipato almeno fino ad agosto a causa del Coronavirus. Essendo tutto bloccato, anziché restare a New York ho preferito rientrare in Italia e stare vicino alla mia famiglia in questo momento difficile. I miei genitori sono impegnati in prima linea in ospedale, quindi a casa c’è sicuramente bisogno di una mano. So che prima o poi potrei tornare negli Stati Uniti, anche se al momento non posso fare previsioni vista la chiusura dei confini”.

È stato difficile tornare in Italia?
“Molto. Volevo rientrare con uno dei voli umanitari che la Farnesina ha predisposto per gli italiani all’estero, ma i prezzi della compagnia aerea erano improponibili. Oltretutto avrei dovuto fare scalo a Roma e da lì prendere un altro aereo per Milano, visto che ormai circolano pochissimi treni. Gli amici italiani conosciuti a New York erano già riusciti a rientrare con quella modalità e mi mandavano foto di aerei pieni in cui i passeggeri, senza mascherina, non potevano nemmeno rispettare la distanza di sicurezza. A quel punto ho cercato altre opzioni e ho avuto la fortuna di trovare un volo di emergenza organizzato dalla Germania, una possibilità per noi espatriati di cui il governo italiano non aveva dato alcuna comunicazione. In questi voli la priorità spetta ai cittadini tedeschi, ma se rimane qualche posto libero nell’aereo i biglietti vengono messi a disposizione di altri cittadini europei. Quindi ho viaggiato da New Jersey a Francoforte, dove ho fatto uno scalo di sette ore, e poi da lì a Malpensa. Ho deciso di correre il rischio, perché non sapevo se sarei stato fermato a Francoforte. Alla fine è andata bene e appena sono arrivato in Italia ho fatto il test, risultato negativo. Ora, comunque, mi sono messo in isolamento come misura di prevenzione per salvaguardare i miei genitori”.

Personalmente come hai vissuto questa situazione di emergenza?
“Ho apprezzato molto la solidarietà dei newyorkesi. Quando l’Italia era il Paese con più contagi, ho ricevuto il massimo sostegno da colleghi e studenti. Una volta che il virus è arrivato anche negli Stati Uniti, alcuni mi chiedevano come fossi riuscito a lavorare con così tanti pensieri per la testa. Infatti in quelle settimane, dopo gli impegni della giornata, di notte ero in comunicazione con i miei genitori perché era l’unico orario compatibile con i loro turni in reparto. Le preoccupazioni erano molte, anche perché alcuni colleghi e amici di famiglia che lavoravano in ospedale erano venuti a mancare e sapevo che i miei avevano avuto contatti con loro. In quei momenti mi ha aiutato molto anche la vicinanza degli altri italiani espatriati. Sin dall’inizio dell’emergenza ci scambiavamo informazioni sulle nostre famiglie e idee sul da farsi, unendoci ancor di più di fronte a questa situazione”.

Gli Stati Uniti sono il Paese maggiormente colpito dal Covid. Come ha reagito la popolazione?
“Il punto di forza degli statunitensi è il loro forte spirito patriottico. Tutti si sono uniti in questa situazione di emergenza e anche chi non è favorevole alla presidenza Trump ha riconosciuto gli sforzi enormi fatti dal governo, che ha stanziato due trilioni di dollari per superare la crisi economica. A New York, come gesti simbolici, tutte le sere alle sette l’Empire State Building si illumina di rosso in onore del personale sanitario, mentre al Rockefeller Center sono state messe le bandiere di tutti i Paesi colpiti dal Covid. Quanto al rispetto delle disposizioni, sin da subito i newyorkesi si sono dimostrati molto diligenti. Manhattan, dove vivevo io, si è praticamente svuotata. I distretti con più casi sono il Queens, prevalentemente ispanico, e il Bronx, mentre ad Harlem, il distretto afroamericano, la situazione è più o meno gestibile”.

Quali misure di prevenzione e contenimento sono state adottate a New York?
“Addirittura a fine gennaio, visti gli avvenimenti in Cina, i luoghi pubblici si erano già attrezzati con erogatori di gel antibatterico e cartelli per invitare a rispettare le norme igieniche, come lavarsi frequentemente le mani. Qualche settimana prima della chiusura definitiva, molte aziende, tra cui la mia scuola, avevano posticipato l’inizio del turno dalle 8:30 alle 10:30 in modo che i dipendenti non prendessero la metropolitana negli orari di punta. Penso che tutte queste misure siano state molto utili per contenere il virus, altrimenti, in un Paese così densamente popolato, la situazione sarebbe stata ancora più critica. Il lockdown è stato annunciato il 18 marzo, ma non c’è una vera e propria quarantena obbligatoria. Come in Italia, le attività commerciali sono chiuse, eccetto supermercati e farmacie, ma si può uscire per camminare o correre, purché si mantenga la distanza di sicurezza. Io facevo camminate anche di dieci chilometri e in quei momenti ho vissuto la stranissima sensazione di vedere New York deserta, immersa in un clima surreale. La risposta all’emergenza è stata immediata e in pochi giorni sono state allestite tantissime strutture sanitarie. Ci sono ospedali improvvisati ovunque, anche a Central Park, dove hanno montato tende per trasferire i pazienti con altre patologie. Al porto di New York è arrivata una nave della marina militare con funzioni ospedaliere e la fiera è stata trasformata in un ospedale per i malati Covid. La presenza della polizia in città è capillare per accertarsi che venga rispettata la distanza di sicurezza e che la gente indossi la mascherina, obbligatoria negli ambienti chiusi e negli spazi aperti in cui si potrebbe venire a contatto ravvicinato con altre persone. Un altro problema sono i senza tetto, e infatti i poliziotti monitorano costantemente le stazioni della metropolitana. Anche a Miami, dove mi trovavo quando sono iniziate le restrizioni, le norme sono molto rigide e la polizia controlla ogni accesso alle spiagge, che sono state letteralmente blindate”.

Come giudichi la risposta del governo statunitense alla crisi?
“Secondo me è stata molto adeguata perché grazie all’immissione di liquidità da parte del governo l’economia potrà ripartire velocemente. Già questa settimana Georgia, Tennessee e Carolina del Sud stanno uscendo gradualmente dal lockdown; a New York, invece, la situazione è ancora in stand-by e non sono state fatte previsioni sulla riapertura. Le misure di sostegno ai cittadini sono molto efficaci. Ad esempio, dal lunedì al venerdì fuori dalle scuole vengono distribuiti gratuitamente prodotti alimentari di prima necessità, come latte, sandwich, yogurt e frutta, e chiunque, indipendentemente dalla propria nazionalità e fascia di reddito, può beneficiare di questo aiuto. In questo momento il servizio sanitario è gratuito per tutti, le università hanno posticipato il pagamento delle rette e chi non può più lavorare a causa del Coronavirus viene rimborsato al 100% dal governo in base alla dichiarazione dei redditi degli anni precedenti. Questi interventi vengono estesi a tutta la popolazione, non solo alle fasce più povere, proprio perché per far ripartire l’economia è importante venire incontro anche alla classe media”.

 Silvia Alabardi