Collitorti 2: la bellezza del basket elevata ad estetica degna di studi approfonditi.

Collitorti 2, lo sapete già, è Massimo, il minore dei fratelli (classe 1962), un giocatore che, come ho già detto, era nato per giocare a pallacanestro tanta era la naturalezza cestistica che fluiva da ogni suo movimento, tanto era il talento che sgorgava dalle sue mani.

MASSIMO

“Devo la mia naturalezza, come la definisci tu, a mio fratello perchè – ricorda Massimo -, ogni giorno Fabio, di ritorno dai suoi allenamenti mi porta a scuola di basket insegnandomi tutto quello che lui aveva appena imparato nel corridoio di casa. Noi due giochiamo tutto il giorno incuranti delle grandissime urlate da parte di mia madre perchè, con inquietante frequenza, spacchiamo mobili, suppellettili, lampade, vetri e oggetti appoggiati sulle mensole. Fabio mi “ammazza” di fondamentali ancor prima di Manuel Campiglio, il mio primo coach, cui seguono Carlo Colombo e Bruno Brumana. Così, quando arrivo al primo approccio serio, ovviamente in via Rainoldi, ho già alle spalle una buona preparazione, ma il mio gruppo d’allenamento è quello dei nati nel 1961, quindi con Dellacà, Aliverti, Costagliola e altri semplicemente perchè non ci sono ancora presenti ragazzi della mia leva. Poi, una alla volta, grazie a una paziente attività di reclutamento nel giro di due stagioni approdano nel gruppo Zanzi, Buzzi Reschini, Tosarini, Caneva e compagnia. Sono anni di grande, bella e intensissima formazione che si dipana su due categorie giovanili: quella corrispondente alla nostra età e quella con i ragazzi più grandi. Poi, per non farci mancare nulla, i nostri allenatori ci iscrivono anche al campionato di Promozione per farci capire con largo anticipo la durezza e le malizie dei tornei seniores”.  

Di fatto sei il capo di una “banda” che dopo un lungo percorso di preparazione arriva per, nella primavera del 1977, allo scudettino conquistato nella categoria Allievi: il secondo titolo giovanile nella storia della Pallacanestro Varese
“Prima di parlare dell’avventura a Pescara, vorrei aprire una parentesi sulle finali nazionali categoria Ragazzi giocate l’anno prima a Porto San Giorgio”.

Ne hai piena facoltà, ma perchè vorresti fare un salto indietro nel tempo?
“Semplicemente perchè nelle interviste precedenti che hai fatto ai miei compagni di squadra della classe ’62 ho notato che nessuno ha rimarcato un fatto: il nostro scudetto Allievi è, a mio parere, totalmente figlio di ciò che è successo l’anno precedente, quindi nel 1976, a Porto San Giorgio”.

A cosa ti riferisci?
“Mi riferisco alla sconfitta di tre punti subita contro Lazio Roma alle finali nazionali categoria Ragazzi e, credimi, nonostante siano passati quasi 50 anni, ogni tanto di notte mi sveglio di soprassalto per gli incubi provocati da quella sconfitta in una gara praticamente già vinta. Sotto il profilo strettamente sportivo credo di non aver mai provato una simile amarezza perchè di quella sconfitta, che mi ha demoralizzato per diversi anni, ricordo praticamente tutto. Ogni dettaglio degli ultimi minuti. I nostri clamorosi errori e le incredibili, credo irripetibili, “magate” dei ragazzi romani. I nostri volti atterriti sulla sirena e, ovvio contrario, le facce ipersorridenti dei giocatori di Lazio Roma. Ci sono rimasto malissimo anche perchè già da qualche settimana sognavo e fantasticavo sul confronto che avrei avuto con Fausto Lovatti, playmaker di Esperia Treviso che allora era considerato uno dei migliori giovani italiani. Invece, il mio sogno si ferma davanti a quei cancelli del cielo e, come ho detto, si  materializza in un incubo che mi disturba ancora oggi. Però,  proprio la lezione subita contro Roma, proprio quella immensa delusione ci apre la testa facendoci capire due cose: ogni gara va giocata fino alla sirena e davvero “non è mai finita, finchè non è finita. L’anno seguente giochiamo tutte le partite con una maturità tecnica e mentale differente e, proprio contro Roma, a livello Allievi ci prendiamo una sonora rivincita conquistando lo scudetto in carrozza e senza rivali”.

Negli anni successivi cosa succede?
“La storia credo sia abbastanza nota: a livello Cadetti e Juniores giochiamo una stagione con una mista dei nati nel ’60 e ’61 e l’anno dopo un’altra mista con i pochi ragazzi della classe ’63 e quelli, più numerosi, del ’64. Disputiamo sempre ottimi campionati giovanili, ma timbriamo il cartellino solo per altre 2 finali nazionali – Monopoli e Capo d’Orlando, anche se io, avendo smesso di giocare pochi mesi prima, a quelle siciliane non partecipo”.

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Infatti, andando “a stampo” con tuo fratello Fabio, anche tu lasci il basket e la Pallacanestro Varese prima del tempo. E il tuo abbandono, come confermato anche da tuo fratello, è davvero pazzesco. E’ come stracciare il biglietto vincente della lotteria di Capodanno
“Esatto: mollo il colpo a metà stagione nel mio primo anno in categoria Juniores. Il motivo? Beh, a differenza di Fabio non mando a quel paese nessuno anche se, in tutta onestà, anch’io posso raccontare di un episodio di insubordinazione nei confronti di coach Bruno Arrigoni”.

E quando si verifica, questo “sketch”?
“Tutto accade durante un allenamento in cui Arrigoni, tirandosela da “maestrino”, ci fa una testa così con i fondamentali, ma per noi che arriviamo dalla scuola tecnica di Carlo Colombo, Bruno Brumana, Franchino Passera e Manuel Campiglio i fondamentali non hanno segreti e, ad un certo punto dopo l’ennesima correzione fuori contesto, sbotto dicendo: “Bruno, ‘ste cose, questi movimenti noi li sappiamo fare da anni. E comunque ben prima che arrivassi tu”.

Torniamo alla questione originale: perchè pianti lì con la pallacanestro?
“Un po’ perchè mi ero stancato e mi stava venendo a noia il ritmo di una vita tutta impostata solo su allenamenti-studio, allenamenti-partite, allenamenti-tornei senza mai avere un momento libero per me, per stare con gli amici, per vedere semplicemente che effetto fa “vivere” facendo altre cose. Un po’ perchè dopo parecchi anni vissuti solo ed esclusivamente su quei due binari ero arrivato molto vicino alla saturazione da pallacanestro. Tuttavia, al netto questo stress montante, la proposta fattami da coach Brumana di partecipare ad alcune trasferte di Coppa Campioni con la prima squadra, sembra restituirmi un po’ di motivazioni. Così, mentre in fretta e furia mi attivo per fare il passaporto, mi arriva la doccia fredda con Brumana che, a sua volta visibilmente seccato e sconcertato, mi comunica che al mio posto viene scelto un altro ragazzo che, a parere unanime, non avrebbe meritato nemmeno lontanamente un simile onore. A quel punto perdo completamente la poesia e, seppur in ritardo, capisco come la società vede e gestisce la situazione e mi cadono i… pantaloni ripensando agli innumerevoli sacrifici e alle tantissime rinunce fatte per la pallacanestro. La chiave di lettura a distanza di tanti anni è una sola: lo “scherzetto” tiratomi dal club in occasione delle trasferte di  Lisbona e Malines rappresenta la classica goccia che fa traboccare il vaso e su una mente già spremuta come la mia ha un effetto devastante. Smetto a 18 anni compiuti da poco rinunciando anche alle finali nazionali juniores del 1980 di Capo D’Orlando”.

Da lì in avanti come procede la tua vita con la pallacanestro?
“Sembra incredibile da raccontare, ma il basket ad alto livello fa “pouff!” e, in un attimo, sparisce del tutto dai miei orizzonti. Nel settembre del 1980 mi arriva infatti una proposta da Basket Angera, club emergente nel campionato di Promozione che durante l’estate costruisce una squadra importante. Il presidente angerese Zanitelli, munifico e appassionato, costruisce ponti d’oro per accaparrarsi le prestazioni di giocatori fuori categoria. Primo fra tutti il mio fratello di latte Marco Dellacà, poi Crippa, il sottoscritto e altri ancora. La proposta, aggiungo, è interessante anche economicamente e per me che da pochi mesi sono ragazzo-padre la “busta rimborsi” del “Pres Zanitelli” significa molto. Le mie due stagioni angeresi si chiudono  positivamente sotto il profilo sportivo con la promozione in serie D che, molto probabilmente, considerato l’entusiasmo e le risorse a disposizione di Zanitelli, avrebbe potuto aprirci le porte per una scalata verso categorie superiori. Invece, purtroppo, in corso d’opera, Zanitelli è colpito da una grave malattia che in pochi mesi lo porta alla morte e allo scioglimento del club. Così, le mie speranze di poter giocare a livelli superiori finiscono in cenere e complice il doppio impegno università e famiglia la pallacanestro passa definitivamente in secondo piano. Continuo infatti a giocare per diversi anni ma solo nei campionati ultradilettanti: Promozione e Prima Divisione passando per Tradate, Daverio, Castronno e così via. Anche perchè, aggiungo, nel frattempo conseguo la laurea in Architettura insieme a Gianluca Zanzi con il quale ho lavorato insieme per alcuni anni, mentre da molto più tempo svolto la mia professione presso il comune di Induno, per il quale sono  responsabile del Settore Tecnico e Territorio. Intanto, la famiglia si allarga e i miei figli, avuti grazie a Stella la mia fantastica e bellissima moglie, sono Cristiana, nata il 31 dicembre 1981, Michelangelo del 1985 e Simone che è nato nel 1987. Ragazzi che già adulti che mi hanno regalato ben 6 nipoti”.

E l’adorabile “Nonno Max” che avventure di basket racconta ai nipotini davanti al classico camino?
“Potrei raccontare della fase interzonale a livello Allievi disputata a Torino nel corso della quale, opposti al Billy Milano la nostra grande storica avversaria, gioco una partita straordinaria contro la coppia di guardie meneghina, ovvero il già ricordato Lovatti, che nell’estate si era trasferito da Treviso a Milano, e contro Lamperti. Potrei raccontare di quando l’ano successivo, nella categoria Cadetti mi ritrovo ancora davanti Lamperti,ma quasi non lo riconosco più perchè nel giro di pochi mesi la guardia milanese appare fisicamente trasformato ed è una sorta di colosso che dotato di muscoli pazzeschi e, in virtù di un atletismo esuberante, schiaccia da fermo e corre il campo con la velocità di un centometrista. Potrei raccontare di quando a livello giovanile negli accesi derby contro Cantù, la mia strada incrocia quella di Antonello Riva, altro giocatore munito di doti fisiche e atletiche spaventose. Un avversario, l’Antonello, difficile, spesso impossibile da contenere o  limitare. Potrei ricordare le centinaia di ore passate ad allenarmi con i “mostri sacri” della serie A targata MobilGirgi, grandissimi giocatori e uomini fantastici. Insomma: cose da raccontare quando i bambini diventeranno più grandi e si avvicineranno allo sport ne avrei, credo”.

Potresti anche intonare loro una canzone: “Generazione di fenomeni, siamo noi…”
“No guarda, io fenomeno non mi sono mai sentito e nemmeno lo sono mai stato. In ogni caso il mio compito principale era mettermi al servizio dei compagni, primo fra tutti Marco Dellacà. Lui sì che era un fenomeno, un vero prodigio. Marcone aveva, credo l’abbia tuttora, un talento straordinario. Poteva segnare 60 punti in faccia a chiunque e non a caso faceva canestro senza difficoltà anche contro i grandissimi della Serie A. Poi, ogni tanto, ma sostanzialmente solo quando serviva davvero, anch’io potevo scrivere grossi bottini a referto. Ricordo per esempio un paio di trentelli segnati nelle finali nazionali, ma recitare da “cecchino” era un compito che spettava ad altri: Dellacà, Buzzi Reschini, Caneva, Zanzi”.  

Voi del ’62, ormai tutti splendidi ragazzi di 60 anni, siete una magnifica “Band of Brothers”
“Ci lega per la vita la fortuna di aver vissuto certe emozioni davvero fortissime e ineguagliabili. Ci lega dunque un filo di magia che in tutti questi anni non si è mai spezzato. Anzi, ogni anno è più forte e solido. Insieme a Claudio, Diego, Flavio, Gianluca, Mauro, Riccardo, Romano e ovviamente coach Carlo Colombo formiamo un bel gruppo che spesso si ritrova per “contarsela su”. Poi, a margine, devo anche aggiungere che con Caneva c’è un rapporto “faticosamente speciale””.

In che senso? Puoi spiegare
“Rapporto faticoso perchè insieme a Ricky, che come me è amante della bicicletta, abbiamo sparso sudore e percorso in lungo e in largo tutte le strade della provincia di Varese, ma ci siamo tolti anche la soddisfazione di fare più volte lo Stelvio, il Mortirolo o altre salite “spezzagambe”. Tutte ascensioni che, rispetto agli allenamenti di pallacanestro, rappresentano comunque delle tranquille passeggiate di salute”

La tua squadra della vita?
“Risposta immediata: tutto il magico gruppo ’62”.

Invece, in Serie A?
“Ho avuto la fortuna di frequentare tre squadre della grande epopea varesina, ma alla fine sono legatissimo alla squadra del 1976-1977: Ossola, Jellini, Morse, Bisson, Meneghin, Zanatta, Rizzi, Toto Campiglio. Di quella squadra mi piacevano tantissimo Randy Meister, l’americano che giocava solo in Coppa Campioni, e per le poche settimane passate con noi Rich “Il Gattone” Rinaldi, giocatore incredibile che aveva due mani fantastiche e movimenti che ti incantavano (Rinaldi, nel 1977, anno “particolare” degli stranieri oriundi, fu costretto a trasferirsi in Svizzera per problemi legati al tesseramento e al passaporto nda)”.

I tuoi allenatori della vita?
“Il mio podio vede sul gradino più alto vede ovviamente Carletto Colombo. Poco sotto, un allenatore di cuore e mentalità come Bruno Brumana e infine anche Franco Passera, bravo tecnicamente che però ho avuto solo per poco tempo rispetto agli altri due”

Quali sono stati gli avversari più rognosi che hai affrontato?
“A livello giovanile quelli che ho già citato: Lovatti, Lamperti, Riva, ma la lista di quelli che il giorno prima della gara mi toglievano il sonno è piuttosto lunga anche se, è giusto ricordarlo, credo di aver spesso ricambiato il “favore”. Invece, ai livelli minori ricordo due avversari difficilissimi da marcare. Il primo era Girola, playmaker razzente di Malnate che aveva la capacità unica di “nascondersi” dentro al parquet per riapparire in un’altra zona del campo. Insomma,  Girola lo perdevo sempre. Poi, altro cliente che mi faceva impazzire era Carlo Caccia, playmaker di scuola Busto Arsizio  affrontato in parecchie partite quando però giocava nella Gorlese. Invece, sempre parlando dei Caccia, ad Angera ho avuto il piacere di insieme a Giovanni, playmaker dotato di fosforo e talento, classe 1961 con cui ci dividevamo i compiti in cabina di regia”.

Oggi, c’è ancora basket nella tua vita?
“No, a parte qualche sporadica partitella con amici. La Serie A non esercita nessuna attrattiva e, per quel pochissimo che vedo in TV, tecnicamente e tatticamente non mi piace anche se, devo riconoscerlo, dal punto di vista atletico i giocatori di oggi sono tutti strepitosi. In ogni caso, no, pallacanestro ne vedo pochissima e non metto piede a Masnago da tempo immemore.
E, ripensandoci, è strano visto che il “Lino Oldrini” per tanti anni è stata praticamente casa mia visto che tra allenamenti delle giovanili e prima squadra vi trascorrevo cinque-sei ore tutti i giorni…” .

Massimo Turconi

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