L’11 maggio non è una data come le altre in casa Pallacanestro Varese. Da ben 23 anni ha assunto un valore completamente diverso, pervaso di misticità e storia da quell’11 maggio 1999 quando i biancorossi conquistarono il decimo scudetto della loro storia.
Una notte magica che anno dopo anno, viene celebrata a Varese, negli occhi e nei ricordi di chi c’era, nella mente di chi non era ancora nato ed ancora oggi vive nella leggenda di quella squadra che regalò un sogno al di là di ogni immaginazione ad una città intera.
Per celebrare questo ventitreesimo anniversario abbiamo deciso di sentire uno degli assoluti protagonisti di quella stagione magica e di tante altre in maglia varesina, un vero e proprio simbolo, nonché campione, amato da tutti a Varese, Giacomo “Gek” Galanda.
Cosa prova quando pensa all’11 maggio di 23 anni fa?
“Sicuramente una grande emozione. Innanzitutto è impossibile non pensare a quella sera perché puntualmente ogni 11 maggio arriva il messaggio del grande Gianni Chiapparo a ricordarci l’evento che è ormai un appuntamento fisso. E’ una data che è significativa non tanto dell’epilogo quanto della costruzione e del percorso fatto in quell’annata. Non penso solo al contesto finale ma a tutto quello che accade durante la stagione. Un’annata magica, con una squadra composta da ragazzi che scendevano in campo per divertirsi e far divertire ma che non era certamente sulla carta la squadra da battere. In tutti noi la data dell’11 maggio è fissata come un momento particolare. Le emozioni di quella serata sono dei flash che ognuno si ricorda a modo suo. Fu un evento straordinario, per come dominammo gara 3, per il ricordo di tutta la città pronta a sostenerci con palazzetto ed ippodromo pieni. Personalmente, ripeto, lego il ricordo a tutta l’annata ma è chiaro che quella sera fu qualcosa di straordinario”.
C’è un aneddoto di quella stagione che l’è rimasto maggiormente impresso e che al momento le fece pensare che potesse essere un anno diverso dagli altri quello?
“Aneddoti, momenti, curiosità ce ne sono davvero a migliaia. Mi ricordo però in particolare un momento in cui, tornando da una serata inaugurale ad inizio stagione in macchina con Cecco Vescovi, gli dissi che secondo me quell’anno avremmo potuto dire la nostra e giocarcela fino in fondo. Si stava pensando dell’effettiva possibilità, magari non di vincere, ma di stare lì fino alla fine a giocarcela. Ricordo sempre che è vero che compimmo un’impresa ma Varese quell’anno era una squadra che giocava l’Eurolega, quindi la base era più che ottima. Mi ricordo anche Meneghin che mi prese in giro quando perdemmo il ritorno di una gara di Coppa Italia, una partita ininfluente perché passammo il turno lo stesso, ma io mi arrabbiai moltissimo perché non volevo mai perdere. Ecco questo era un esempio dello spirito di quella squadra che poi ha fatto la differenza e ci ha portato ad arrivare fino in fondo. Eravamo un gruppo che aveva la voglia di lasciare il segno. Non è stato un risultato raggiunto per caso”.
Da esterno che idea si è fatto della stagione così particolare che i biancorossi hanno vissuto quest’anno?
“Diciamo che Varese, accomunata da tante altre realtà italiane purtroppo, vive una grande volatilità in termini di risultati e quindi anche di programmazione ed è veramente difficile in queste condizioni, costruire progetti a lungo termine. Io prendo come esempio la Reyer Venezia, che ha voluto investire anni fa in un progetto con un gruppo consolidato di giocatori ed è andata avanti così nel brutto e nel cattivo tempo. Non a caso infatti è una realtà che dice sempre la sua a fine campionato, ha vinto due scudetti, ha conquistato una Coppa Italia, insomma una realtà di livello. Detto questo, penso che a Varese la società non vada sempre criticata ma bensì anche aiutata. Non si può vincere sempre, non esiste l’eccellenza, nessuno la può raggiungere non si può vincere senza investimenti importanti e ci deve essere un percorso di crescita graduale e costante nel tempo, nel quale si può anche sbagliare. Si commettono errori che se vengono ingigantiti diventano un problema sempre più grande, se invece vengono valutati come normali incidenti di percorso, hanno una valenza diversa”.
Di cosa ha bisogno Varese secondo lei?
“Io penso che Varese abbia in questo momento bisogno di una maggior coralità e condivisione su quello che deve essere un obbiettivo finale, che non può essere necessariamente la perfezione. I biancorossi possono fare questo contando su una persona che è un gigante nel mondo del basket e della storia varesina come il Toto Bulgheroni, che ringrazierò sempre, che però da solo non può reggere tutto, deve essere affiancato e sostenuto. La cosa che mi dispiace maggiormente è vedere tutti i cambi che ci sono stati quest’anno, dall’allenatore, alla società, ai giocatori. E’ ovvio che se i risultati non arrivano serva uno scossone, però è altrettanto chiaro che tutti questi cambiamenti siano molto pericolosi nella formazione di un’identità di gruppo e nella costruzione di un futuro, perché si rischia di dover ripartire sempre da capo. C’è bisogno di maggior continuità nei progetti e non mi riferisco solo a Varese. Non entrando nella parte tecnica, credo che lo step principale debba essere quello di avere una società con ruoli chiari e definiti per poi decidere lo staff, di lavoro, l’allenatore ed i giocatori, come in una sorta di piramide. Diciamo che in questo senso l’avvento di Scola è importante, con uno staff societario ben delineato ed un progetto chiaro. Se dopo tanto trambusto si è arrivati ad una linea definitiva penso sia quella migliore da perseguire con pazienza e continuità”.
Parte del progetto di Scola punta molto sulla rivalutazione del settore giovanile biancorosso per crearsi risorse, umane e professionali in casa. Crede sia un percorso giusto questo per rifare grande Varese?
“Mi rincuora che Scola la pensi come me. Onestamente, quando ho avuto modo di applicare le mie conoscere cestistiche a Pistoia come dirigente, questo è uno dei punti su cui ho cercato di spingere maggiormente. Qui torno a collegarmi però al discorso di prima. E’ chiaro che i frutti di un progetto di lavoro sul settore giovanile, impostato in una certa maniera, li si vedrà tra un po’ di tempo e non subito. Sono fermamente convinto che ci debba essere il giusto bilanciamento tra mercato e crescita dei giocatori. Non possiamo prendere tutto da fuori e non possiamo creare tutto in casa. Serve creare un giusto sistema di competenze. La Serie A deve continuare ad essere il campionato professionistico di riferimento mentre lo sviluppo di giocatori deve essere seguito da persone e strutture che ne hanno competenze. In America è così, perché prima di diventare giocatori professionisti c’è un percorso ben definito con le High School, i College, ed in ognuno di essi c’è chi si occupa in maniera settoriale della crescita dei ragazzi in quella determinata fascia d’età, di crescita e sviluppo, anche fisico. Non solo a Varese ma nel panorama della pallacanestro italiana, vanno creati dei settori giovanili che siano dei laboratori per i giovani giocatori. Dico questo perché vedo tanti ragazzi crescere, lavorare, impostarsi dal punto di vista fisico e tecnico e poi non li vedo avere l’approccio giusto nel momento in cui vanno a giocare. Non vedo giocatori di pallacanestro ma atleti che giocano a basket. Questo è il punto di rottura e allo stesso tempo la connessione che si deve creare tra chi fa crescere e sviluppare i ragazzi e chi poi gli insegna a giocare a basket, ovvero le società professionistiche. Cosa voglio dire con questo? Settori giovanili che abbiamo contaminazioni dalle prime squadre, in modo tale da poter crescere parallelamente nei due step che ho sopra definito. Non basta essere gente che fa canestro e prende rimbalzi ma che sappia stare in campo. C’è tanto ancora da fare ma penso che la strada intrapresa da Scola possa essere quella giusta”.
Alessandro Burin