Il settore della ristorazione è uno dei più colpiti dall’emergenza Covid. La chiusura totale durante il primo lockdown e le successive restrizioni degli ultimi mesi ne hanno ridotto drasticamente l’attività, che al momento attuale, a eccezione delle regioni gialle, può limitarsi esclusivamente al servizio d’asporto e alle consegne a domicilio. Questa la soluzione, o magra consolazione, a cui sin da subito ha fatto ricorso il ristorante Cesarino a Comabbio, situato in una meravigliosa location con vista sull’omonimo lago.
Il proprietario e chef Cesare Comani spiega come ha affrontato e continua ad affrontare questo momento di difficoltà e quanto sia dura, per chi ha dato prova di rispettare scrupolosamente i protocolli di sicurezza, ritrovarsi nuovamente con il locale vuoto. Ciononostante, la cucina è sempre aperta per poter almeno portare i piatti e le specialità del ristorante sulle tavole di clienti e amici.

Come vi eravate organizzati tra i due lockdown? C’era stata una buona ripresa? 
“Sì, fortunatamente alla riapertura il 21 maggio abbiamo ritrovato i nostri clienti abituali, che ci hanno aiutato a riprendere. Il loro attaccamento è stato molto importante e fa pensare che in questi 53 anni di attività siamo riusciti a seminare bene. Nei quattro mesi successivi abbiamo lavorato abbastanza, anche per il fatto che c’erano belle giornate. Dopo il lockdown, la gente voleva stare all’aria aperta per correre meno rischi e il nostro terrazzo spazioso dava probabilmente un senso di maggiore libertà e sicurezza. Anche all’interno il locale è molto ampio, quindi siamo riusciti a distanziare bene i tavoli, trasmettendo serenità a chi veniva a mangiare da noi. Abbiamo anche introdotto il menu con il QR code in modo che si potesse leggerlo con il telefono. Il nostro intento era di adottare tutte le normative possibili per tutelare sia noi che lavoriamo sia i nostri clienti, riuscendo così a tranquillizzarli. Abbiamo anche avuto dei controlli che per tutte le misure prese sono andati molto bene”.

Quanto era stato difficile sopravvivere alla chiusura di questa primavera?
“Al di là del lavoro corrente del periodo da marzo a fine maggio, abbiamo perso appuntamenti importanti come il giorno di Pasqua, il lunedì dell’Angelo, ma anche le cresime, le comunioni e un pranzo di matrimonio che era in programma a giugno. Purtroppo le perdite che abbiamo avuto in quei mesi non si possono recuperare. La Pasqua, in effetti, apre la stagione ed è l’occasione per rivedere tutte le persone che si sono perse di vista durante l’inverno. Ora salterà anche il Natale e sarà un altro duro colpo, e non mi riferisco solo al 25, ma anche a tutte le cene aziendali che quest’anno non avremo modo di ospitare. Perderemo tutto il periodo natalizio, che in condizioni normali sarebbe già cominciato da metà novembre”.

Come procede adesso il servizio da asporto e come vi state organizzando in questo periodo? 
“Riusciamo a fare qualcosa grazie a qualche amico e cliente affezionato, anche per mantenerci attivi in cucina. Lavoro tutti i giorni e al momento stiamo studiando il menu per il pranzo di Natale d’asporto, per il quale cercheremo di allargare la nostra rete in modo da trovare nuovi clienti e avere qualche ordinazione in più. Siamo in attesa di vedere se ci sarà qualche nuovo decreto che cambi le carte in tavola, ma penso proprio che passeremo le festività a casa tra le nostre quattro mura. Purtroppo andiamo avanti di settimana in settimana, senza molte certezze, e nel nostro settore la situazione è drammatica. Ad esempio, dovrei già fare gli ordini per Natale, perché non posso aspettare il 24, ma non sapendo per quante persone lavorerò si rischia di comprare scorte che poi non verranno vendute. Ho sentito qualche collega e il momento è davvero disperato, soprattutto per chi ha vari dipendenti e la cassa integrazione non è ancora arrivata, perché non tutti sono nelle condizioni di anticiparla arrivando già da un periodo economicamente difficile. Altri hanno chiuso, così come alcuni alberghi, e io mi ritengo fortunato di poter continuare la mia attività”.

Quando la Lombardia tornerà in zona gialla, potrete restare aperti fino alle 18. Quanto pesa la chiusura serale per il vostro ristorante? 
“Molto, perché il nostro locale lavora soprattutto la sera. Quando dovevamo chiudere alle 18 ci siamo salvati grazie al sabato e alla domenica. Comabbio conta 1.200 abitanti, quindi il bacino di utenza relativamente al paesino non è molto grande. Da sempre accogliamo clienti da Milano, Legnano, Busto, Gallarate, soprattutto nei fine settimana della bella stagione, quando la gente approfitta del bel tempo per venire a fare un giro al lago. In generale, durante l’anno, la maggior parte del fatturato viene dalle cene, anche perché non mi sono mai occupato di menu di lavoro, non essendoci oltretutto uffici in zona. È chiaro che dover chiudere alle 18 ci ha penalizzato molto, ma almeno il sabato e la domenica riuscivamo a fare un po’ di fatturato per pagare le spese”. 

A proposito di spese da pagare, ha potuto beneficiare degli aiuti previsti dallo Stato? Sono stati utili nel suo caso?
“Sia nel primo che nel secondo lockdown ho ricevuto un aiuto economico tramite il Decreto Ristori, ma non potendo lavorare a pieno regime è stato come una piccola goccia nel mare, con cui non siamo riusciti a coprire neanche tutte le spese dell’INPS, dell’INAIL e le varie tasse”.

Cosa pensa delle misure generalizzate che hanno colpito il suo settore? 
“Personalmente non ho mai preso alla leggera il virus, anzi, sto sempre molto attento per me e per la mia famiglia, però secondo me il settore della ristorazione non era il vero pericolo, purché le persone usino il buon senso. Il cliente arriva insieme alla famiglia con la sua macchina, nel nostro caso la lascia in un parcheggio privato, scende indossando già la mascherina, all’ingresso gli viene misurata la temperatura, si disinfetta con il gel, poi va al tavolo dove possono sedere al massimo quattro persone, consuma il suo pasto tranquillamente, molto distanziato dagli altri tavoli, e se deve alzarsi si rimette la mascherina. Non capisco francamente quale tipo di problema potesse creare la ristorazione, ma parlo dal punto di vista della gente che rispetta le regole. Io ho sempre predisposto il mio locale in modo idoneo per poter svolgere il lavoro in sicurezza, adottando anche distanze maggiori di quelle che imponeva la legge. A Ferragosto, per fare un esempio, ho lavorato a metà perché ho rinunciato ad accogliere altre persone, e infatti tanti clienti mi hanno fatto i complimenti, perché la salute è una priorità. Se tutti avessimo fatto così, forse adesso non ci troveremmo in queste condizioni. Se hai un numero di persone equilibrato in base alla metratura del locale e le tieni sotto controllo, puoi accorgerti di eventuali mancanze. Io da questo punto di vista non ho mai avuto problemi con i clienti, che sono stati sempre tutti ligi. D’altro lato, magari certi locali più piccoli facevano entrare più persone di quante avrebbero potuto. In una situazione del genere, soprattutto se il personale è poco, diventa più difficile controllare se qualcuno gira per i tavoli senza mascherina e c’è un maggior rischio di contagio da parte degli avventori. Spiace che tutta una categoria sia stata penalizzata, visto che se si usasse il buon senso e si rispettassero determinate regole che sono anche del vivere civile, a mio avviso diventerebbe tutto più fattibile”.

Difatti, pur riconoscendo la complessità della situazione, si notano certe incongruenza tra ciò che è consentito e meno.
“Penso che rispetto a un pranzo al ristorante siano molto più pericolosi gli assembramenti che si creano fuori dai negozi, come è successo lo scorso fine settimana in centro a Milano, oppure sui mezzi di trasporto, che sono probabilmente la causa maggiore dei contagi. Secondo me la manchevolezza più grossa è stata di non vigilare i luoghi dove c’erano maggiori probabilità di sovraffollamento, come le fermate più trafficate. Con la chiusura delle varie attività si rischia di mettere in ginocchio l’economia, quando invece dovremmo cercare di sopravvivere. Io ho sicuramente i miei problemi con il ristorante, ma tutti sono stati colpiti e bisognerebbe cercare di andare incontro alle esigenze di ciascuno. Nel nostro settore c’è anche da tenere presente che restare chiusi per mesi non comporta solo un discorso di mancanza di incasso, ma anche il rischio di perdere i clienti. Senza vedersi di persona e con tutto quello che è successo, le abitudini possono cambiare e portare a una disaffezione di cui il ristoratore non ha colpa. Nel mio caso devo dire che sono particolarmente felice perché io e i miei clienti non ci siamo dimenticati e in questo periodo abbiamo mantenuto i contatti, anche per l’amicizia che si viene a creare dopo tanti anni, ma non tutti purtroppo hanno questo storico e questa fortuna”.

Silvia Alabardi

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