Uno dei Paesi europei più duramente colpiti da questa seconda ondata di contagi è la Francia. È proprio lì che si trovava il varesino Jacopo Riboldi, rientrato in Italia dieci giorni prima che Macron dichiarasse lo stato di emergenza con conseguente lockdown. Originario di Malnate, Jacopo racconta il graduale irrigidimento delle misure di contenimento, confrontando la situazione vissuta a Parigi con l’attuale scenario italiano.
Da quanto tempo ti trovavi a Parigi e quando hai deciso di rientrare in Italia? Hai riscontrato qualche difficoltà per il viaggio?
“Ero a Parigi da due anni: da novembre 2018 sono ricercatore all’École Normale Supérieure, dove studio meteorologia e scienze del clima. Ho deciso di rientrare in Italia giovedì 29 ottobre, il giorno prima che venisse dichiarato il cosiddetto “reconfinement”, equivalente del nostro confinamento, in cui bisogna stare a casa e si più uscire solo con l’autocertificazione. Con il lavoro fortunatamente non ho avuto problemi perché riesco a fare tutto anche da qui; l’unico inconveniente è la connessione Internet, visto che l’accesso ai dati meteorologici avviene tramite server che si trovano su territorio francese, quindi a volte il collegamento salta e devo ricominciare da capo le mie analisi. La Francia a questo giro è stata colpita prima dell’Italia, l’opposto di quanto successo a marzo, con tempistiche anticipate di circa due settimane. A metà ottobre, quindici giorni prima che tornassi, era stato introdotto il coprifuoco: a Parigi e in altre regioni della Francia bisognava tornare a casa prima delle nove di sera. Fino ad allora avevo ancora la possibilità di rimanere a lavorare in ufficio. Abitando a pochi minuti a piedi dall’università, non dovevo neanche prendere la metropolitana. Con il confinamento, però, l’attività di ricerca doveva passare al telelavoro, quindi ho deciso di tornare a casa, dove ho più spazio rispetto al mio piccolo appartamento di Parigi. Il viaggio è stato molto tranquillo. Normalmente opto per il treno, ma visto che al rientro in Italia è obbligatorio o esibire l’esito di un tampone fatto al massimo nei tre giorni precedenti o sottoporsi al test nelle 48 ore successive all’arrivo. Ho preso l’aereo per arrivare a Malpensa, dove c’è un punto tamponi presso il quale ho prenotato il test. Una volta arrivato all’aeroporto, ho deciso di restare per qualche giorno in isolamento in hotel per aspettare il risultato e ritornare senza rischi dalla mia famiglia”.
I parigini rispettavano le regole?
“I francesi secondo me sono molto più simili a noi italiani di quanto pensiamo, anche se magari sono un po’ meglio organizzati. Ho notato, però, è che se il coprifuoco iniziava alle 21, fino alle 20.30 i bar erano pieni di gente che stava all’aperto senza mascherina. Una cosa che ho trovato sempre strana in Francia era proprio che nei tavoli dei caffè all’aperto non fosse necessaria la mascherina, come se il virus non ci fosse. Gli spazi erano ristretti e di conseguenza c’era gente accalcata, con gruppi di amici tutti molto vicini tra loro. Ovvio, volevano passare del tempo assieme, ma così si esponevano a rischi elevati. Io, di fatti, avevo ridotto di molto le uscite al bar oppure cercavo di avere un tavolo separato o all’interno, dove c’erano regole più nette per il distanziamento. Ma in generale direi che le regole erano rispettate. Se lo Stato faceva una certa legge, non c’erano particolari proteste violente come è successo in Italia nelle ultime settimane con la dichiarazione del lockdown. Se la regola però non c’è, ovviamente cercano di trovare ogni spazio possibile per trovarsi. Ho saputo, ad esempio, che ci sono stati molti party privati e un giorno, mentre ero in centro con un mio amico, abbiamo visto una lunga fila di gente, saranno state una cinquantina di persone, che dopo qualche minuto sono letteralmente sparite in un piano interrato. Immagino che non sia successo solo a Parigi; certo è che nella capitale, molto popolata e piena di giovani, questi episodi sono più frequenti”.
Cosa ti ha più sorpreso, positivamente o negativamente, in questa situazione che stiamo vivendo?
“La cosa secondo me più paradossale di tutta questa esperienza è stata la discordanza, o direi anche schizofrenia, tra da un lato la voglia di ritornare a fare le cose come prima, per far girare l’economia rispettando le distanze di sicurezza, e dall’altro la raccomandazione di restare a casa ed evitare di visitare i parenti. Chiaro che ognuno deve assimilare entrambi gli aspetti e valutare se quello che sta facendo è adeguato o meno, però sono sicuramente messaggi contrastanti e possono creare un po’ di confusione. Rispetto all’Italia, però, la comunicazione del governo francese è sempre stata molto chiara. Di regola ogni settimana Macron o il primo ministro fanno un discorso in cui vengono annunciate nuove misure. È vero che si sovrappongono l’una sull’altra, ma si riesce a seguire la traiettoria delle decisioni prese. A inizio ottobre già alcune parti della Francia erano diventate rosse (anche lì c’è una suddivisione per colore) e ogni settimana vengono aggiornati i vari dipartimenti. La volta dopo era toccato a Marsiglia e poi anche a Parigi, anche se lì era stato fatto un accordo con i ristoratori, che potevano rimanere aperti se disponevano di tavolini fuori. Alla fine, così, solo il 10% di queste attività aveva effettivamente chiuso, ovvero i pub e i bar che non servono cibo. Da lì si è poi arrivati all’annuncio del locdown totale, che ero riuscito a prevedere in base ai passi precedenti del governo, quindi avevo prenotato il biglietto in anticipo per evitare che i prezzi aumentassero”.
Oltre all’aspetto della comunicazione, hai notato altre differenze e analogie tra Francia e Italia nel modo di gestire la situazione?
“In Francia c’è una maggiore coordinazione per il fatto che lo Stato è più centralizzato, quindi quando il governo ordina qualcosa, le regioni lo eseguono, magari lamentandosi, ma non hanno il potere di invertire queste decisioni e si adattano. Poi ho notato che in Francia è molto più facile sottoporsi al test. Il tampone viene rimborsato dalla sanità pubblica senza particolari problemi e i prezzi sono calmierati, mentre qui in Italia, in una clinica privata, può arrivare a costare molto. In Francia basta andare in un laboratorio con la ricetta del dottore e grazie alla tessera sanitaria non si deve pagare niente. La Francia fa anche molti più test rispetto a noi, più di un milione a settimana. Quanto alle analogie, nei giornali francesi si leggono discussioni simili a quelle che ci sono state in Italia, ovvero se si poteva chiudere tutto prima e se le misure hanno senso. Ogni provvedimento viene accompagnato da un dibattito pubblico, ma la maggior parte dei francesi sono favorevoli alle decisioni prese. Anche in Italia, adesso, credo che ci sia un consenso generale”.
Arrivando dall’estero, come vedevi e come vedi ora la nostra situazione?
“Parto sempre dal fatto che nel mio caso c’è una sorta di distanza temporale: quando ero in Francia, l’Italia se la stava ancora cavando abbastanza bene ed era all’inizio della curva epidemiologica, mentre la Francia era messa peggio. Quindi vedevo l’Italia come un Paese relativamente poco toccato ed ero sollevato. Ora che sono qui da due settimane, posso dire che abbiamo preso qualche misura un po’ più in fretta rispetto alla Francia, perché là il confinamento è stato deciso a livello globale, mentre qui era già stato imposto in alcune regioni. La situazione attuale è comunque difficile, ma speriamo che le misure prese sortiscano presto i loro effetti. Anche in Francia non si è ancora arrivati al picco dell’epidemia; il primo ministro farà a breve un aggiornamento, due settimane dopo l’inizio del lockdown, ma probabilmente non renderà le misure meno dure. I parchi, ad esempio, non sono stati chiusi e da quello che mi dicono i miei amici, sembra che i controlli di polizia siano meno frequenti rispetto a questa primavera. Anche qui in Lombardia più attività sono rimaste aperte rispetto a marzo e noto che c’è più gente in giro e più tranquillità. Il primo lockdown è stato molto pesante, ora forse c’è più accettazione”.
Silvia Alabardi