Fabio e Massimo Collitorti. Puoi chiamarli, semplicemente, i “Fratelli dello Scudetto

Fabio e Massimo: personaggi importanti nella storia della Pallacanestro Varese perchè, senza voler scomodare argentini, americani e compagnia bella, la “Storia” della Pallacanestro Varese, quella con la “S” maiuscola è altro.
Tanto altro. E’ una storia che ha radici profonde che sostengono la buona terra cestistica della nostra città.

E’ quella “Storia” semplice, vera, genuina scritta da centinaia di ragazzi che sparsi sui 7 colli di Varese hanno indossato la “nostra” maglia e ancora ne sentono il profumo. Se ne cibano come fosse un pane quotidiano, sempre croccante. Storie di ragazzi che arrivavano al palazzetto, al “Lino Oldrini“, a Masnago con i loro borsoni sempre troppo grossi, sempre troppo pesanti perchè carichi di sogni. Ché, tanto lo sai già, i sogni, quelli in cui credi di più, pesano una cifra. E se non li realizzi diventano macigni. Blocchi di granito sulle spalle.  E ti spaccano le mani per la fatica di portarli.

Fabio, classe 1956, e suo fratello Massimo, classe 1962, quei sogni, seppure a metà, li hanno realizzati appiccicandosi al cuore due scudetti che li hanno resi un caso unico nella storia della pallacanestro giovanile italiana.

Caso unico perchè fratelli che hanno vinto il tricolore a livello giovanile ce ne sono stati ovviamente altri e, senza andare lontano, noi a Varese con i fratelli Gergati ne sappiamo qualcosa. Tuttavia, mi risulta, ma son pronto a fare ammenda nell’eventualità di un errore, solo Fabio, titolo italiano conquistato con i Cadetti nel 1973 e Massimo, scudetto conquistato con gli Allievi nel 1977, sono stati capaci di vincere a distanza l’uno dall’altro di un intero ciclo di settore giovanile.

Come dire: la storia si ripete. La storia ripassa da queste parti.
Che, poi, le storie dei Collitorti sono due e pure ben differenziate perchè Fabio e Massimo sono stati giocatori diversissimi.

Fabio: grande difensore, “killer” specialista e agonista spietato da piazzare sugli attaccanti avversari più pericolosi mentre, in attacco, freccia velocissima da lanciare in contropiede e tiratore saltuario, ma micidiale.

Fabio: un giocatore che completava, ma soprattutto equilibrava al meglio un quintetto e una squadra di “stelle” con tanti ragazzi arrivati in serie A – Mau Gualco, Enzino Carraria, Sergione Rizzi, Mauro Salvaneschi -, o che per tanti anni sono stati protagonisti in B: Fredy Bessy, Giorgio Lepori, Franco Martinoni e altri ancora

Massimo, invece, aveva lo status del predestinato: tecnica, forza, eleganza cestistica da “stilista top”, mani educatissime, livelli celestiali di comprensione del gioco e parecchie altre qualità.

Massimo, insieme a Marcone Dellacà e Gianluca Zanzi (articolo che a Dio e a Gianluca piacendo prima o poi arriverà…) ha formato per anni il terzetto di guardie più forte e completo d’Italia a livello giovanile.  

Ecco le storie che corrono parallele. Vicende belle che si sostengono l’una nell’altra ma, purtroppo, troppo brevi. Storie che per gli strani casi della vita non si incroceranno mai su un campo da pallacanestro.
Ecco, prima, quella di Fabio, che come gran parte dei fratelli maggiori ha avuto un’influenza decisiva sulle scelte successive di Massimo.

FABIO

“Ho l’orgoglio e il privilegio assoluto di essere uno degli “Original ’56ers, oppure spiegato in altro modo – dice Fabio Collitorti, oggi affermato avvocato con studio e abitazione a Milano, ma praticamente di casa presso il Tribunale di Busto Arsizio -, uno dei “membri fondatori” della squadra che, di fatto, scrive la prima pagina di storia nel librone del basket giovanile di Pallacanestro Varese conquistando nel lontano 1973, il primo tricolore di una Ignis che dopo anni di incontrastato dominio in Italia, Europa e mondo a livello senior, non poteva accettare un ruolo di secondo piano a livello giovanile. Al basket mi avvicino grazie a Giancarlo Gualco, ex-giocatore della Pallacanestro Varese e in seguito primo storico GM della pallacanestro italiana, che è il papà famoso di Maurizio, mio compagno di banco alle elementari.  Giancarlo ci porta a vedere le partite della Ignis e per me quel momento equivale ad una magia, una sorta di folgorazione e dai 10 anni in poi la mia giornata è scandita dal binomio pane & Ignis. La mia avventura con la pallacanestro inizia in 5° elementare nella famosa palestra di Via Rainoldi e i primi fondamentali me li regala un istruttore d’eccezione: nientemeno che Paolone Vittori, allora il più importante e talentuoso giocatore italiano. In quel gruppo Gualco e Lepori frequentano in maniera saltuaria, mentre Bessi non c’è ancora. Tuttavia, le mie prime vere esperienze di gioco con squadre “serie” sono quelle in cui, da bimbetto, sono inserito in un gruppo allenato da coach Franchino Passera e, timidamente, cerco di dare una mano a ragazzi che hanno un paio d’anni più di me. Mi riferisco a Bani, Bartolucci, Chiarini, Crugnola, giocatori che rispetto a me sono dei colossi e per le loro qualità tecniche, fisiche e atletiche si allenano stabilmente con la serie A. Invece il nostro gruppo ’56, rimpolpato da nuovi innesti con ragazzi più giovani – Marangotto ’57, Mottini e Bombelli ’58 – inizia ad allenarsi insieme circa un anno dopo”.

Prime sensazioni?

“La più importante, che di fatto è quella che ci lega ancora oggi, è legata alla scintilla della grandissima amicizia che subito scatta tra di noi. Siamo come un branco di cuccioli che si muove sempre insieme e vive unito dentro e fuori dalla palestra. Questo essere tutti allineati rende tutto più facile anche dal punto di vista cestistico perchè ci passiamo la palla in attacco e difendiamo l’uno per l’altro in difesa. Cose semplici che, supportate dal talento e dalla formidabile attitudine al lavoro, ci permetteranno di migliorare e passo dopo passo arrivare allo scudetto”.

Il famoso scudettino conquistato nel 1973 a Roseto: come ci arrivate?

“Premessa del tutto personale: nel pieno dell’inverno 1973 ho a che fare con ben altri e ben più gravi pensieri perchè durante una partita contro l’Antoniana Busto Arsizio, mentre corro in contropiede, un avversario bustocco, in netto ritardo, pensa bene di farmi un fallaccio e con un placcaggio stile-rugby mi fa volare in avanti. Io cado rovinosamente, picchio la testa sul pavimento, riporto un serissimo trauma cranico che mi provoca un successivo stato di coma che dura quasi tre giorni. Ti lascio immaginare la grandissima preoccupazione di mia madre, che tra l’altro è sulle tribune per assistere alla prima gara di basket della sua vita, di compagni, allenatori e di tutto l’ambiente Pallacanestro Varese. A questo grave infortunio seguono diverse settimane dedicate ad una lenta ripresa. Un tempo infinito che, adesso lo posso confessare, io inganno andando a correre o a giocare al campetto di nascosto dai miei genitori. Alla fine di questo lungo periodo di inattività sono comunque abbastanza allenato, prontissimo e voglioso di affrontare insieme ai miei compagni lo snodo cruciale della stagione, ovvero la fase interzonale a Brescia con Simmenthal Milano, grandissima favorita, e Saclà Asti.  Noi sicuramente partiamo con speranze ridotte al lumicino anche perchè prima del torneo di qualificazione Fredy Bessi, playmaker del quintetto, si infortuna alla caviglia. Arrivando a Brescia sentiamo però i milanesi che, allegri e spensierati, parlano solo di “pinne, fucile e occhiali” credendo evidentemente di avere già in tasca il “pass” per le finali nazionali di Roseto. Milano, in effetti, sembra essere uno squadrone con giocatori di alto livello come Fabbricatore, già nel giro della serie A, Sabatini, lungone di 211 centimetri, Fritz e altri ancora, mentre noi siamo poco considerati.  Ma, a conti fatti, è proprio il comportamento da fanfaroni dei milanesi a infonderci una carica pazzesca che si trasforma in adrenalina che, a sua volta, si concretizza in tre miracoli. Il primo, puramente emotivo, è quello che ci fa giocare con il coltello fra i denti e da tarantolati per tutti i quaranta minuti al punto che i milanesi escono addirittura frastornati e moralmente malconci dal derby-sfida. Gli altri due miracoli sono invece di tipo tecnico. Quello che stupisce di più e fa restare tutti a bocca aperta è l’impatto sulla squadra di Bombelli perchè il sostituto di Bessi, nonostante sia più giovane di un paio d’anni, gioca benissimo in attacco, ma soprattutto in difesa dimostrandosi elemento fondamentale per realizzare il secondo miracolo: la nostra difesa “segreta”. Sto parlando di una zona press tutto campo 1-1-2-1 sulla quale coach Dodo Rusconi ci fa lavorare duramente in allenamento, ma senza mai proporla agli avversari nella fase di qualificazione. In quel periodo infatti alle nostre partite ogni tanto si vedono strani personaggi. Classici “allenatori-spia” mandati in ricognizione che, armati di block-notes, scrivono pagine su pagine di report tecnici. Così l’appuntamento “al buio” bresciano rappresenta il momento perfetto per sfoggiare la zona. Io e Marco Bombelli, ragazzo di grande dinamismo e dotato di due “gambe-dinamite”, ci facciamo un paiolo così per pressare i milanesi che, fin dalle prime battute della gara, vanno in sofferenza dimostrandosi incapaci di superare la nostra aggressività. Così, battiamo Milano e Asti e tra la sorpresa generale stacchiamo il biglietto per Roseto”.

Cosa ricordi invece della kermesse rosetana?

“Ci presentiamo a Roseto nella nostra veste vera. Sostanzialmente siamo una squadra di “gazzelle”: tutti magri da far paura, ma rapidissimi, agili, atletici, abituati a giocare ad un ritmo pazzesco. La fotografia del nostro modo di stare in campo è ben rappresentata da Mauro Salvaneschi, arrivato da Broni un paio d’anni prima, Mauro, pur dotato di un fisico incredibile, impiega un’intera stagione per adeguarsi al nostro ritmo di gioco ma, appena capisce la solfa, diventa un giocatore di incredibile efficacia. L’interzona rappresenta per Salavaneschi il suo primo tagliando ad alto livello perchè Maurino gioca bene e si mette in luce come giocatore decisivo insieme a Gualco e Lepori, gli altri due terminali del nostro attacco. Io invece, vorrei evidenziarlo in giallo, in quella squadra rivesto il ruolo importante, forse determinante, di elemento “equilibratore” perchè pur avendo una discreta mano, non mi interessa trovare gloria a referto. Sono più un “soldatino”, un giocatore disciplinato che scende in campo con compiti precisi. In difesa devo stancare il play o la guardia avversaria più importante, finire la partita senza energie e con le gambe a pezzi per il tremendo sforzo. In attacco devo correre sempre in contropiede e fare canestro nei rari tiri che ho a disposizione. Ma, ribadisco, sono pur sempre un giocatore del quintetto campione d’Italia al fianco di Bessi, Lepori, Salvaneschi e Gualco”. 

Lo scudetto conquistato a Roseto rappresenta il più alto raggiunto dal vostro gruppo….
“Per quelle finali nazionali mi approprio di una famosa immagine di Dan Peterson e dico che giocando da “Banda Bassotti” vinciamo superando tutti gli avversari grazie a due componenti fondamentali: amicizia e grande sintonia tecnica e mentale. Non a caso nelle finali nazionali juniores disputate a Reggio Emilia l’anno successivo quella “magia” non scatta pur avendo una squadra molto, molto più forte con due lunghi di alto livello come Rizzi e Carraria. Per conseguenza diretta, saltano per aria la perfetta chimica tecnico-tattica e la grande coesione morale che avevamo costruito in tutti quegli anni. A Reggio Emilia gli effetti di questa implosione si vedono a occhio nudo perchè sul parquet gioca una squadra fatta con nomi altisonanti, ma in realtà composta da “figurine” che non sono mai diventate un gruppo e in relazione al valore “cartaceo” rimedia una figuraccia”.

Perchè, a tuo giudizio?
“Oltre alle ragioni già citate c’è il fatto che, in quell’estate 1973, a Varese avvengono molti cambiamenti che, c’è poco da fare, incidono tantissimo sul morale di noi ragazzini. Da Milano arriva coach Sandro Gamba che porta con sè coach Bruno Arrigoni come assistente e allenatore degli junior. Gamba e Arrigoni che evidentemente hanno carta bianca in tutte le scelte sostituiscono e soppiantano lo staff tecnico precedente. Così noi perdiamo di colpo Brumana, Carlo Colombo, Passera, Rusconi, ovvero i nostri allenatori-formatori-educatori-punti di riferimento. Questa nuova strada tecnica, parlo a purissimo titolo personale, mi infastidisce tantissimo. Nella mia testa di adolescente passionale e intransigente mi sembra impossibile che padroni della situazione siano diventati due milanesi verso i quali fino a poche settimane prima scorrevano a fiumi astio e odio sportivo. ‘Sta scelta non riesco proprio a digerirla al punto che facendo una cazzata grande come il mondo decido di smettere. Ma, aggiungo, anche i nostri ex-allenatori, in particolare Brumana non sono granchè soddisfatti dell’andazzo perchè Arrigoni, che durante la settimana non si fa mai vedere e non ci conosce minimamente è poi presente per dirigere le partite e ci tratta pure male. Per farla breve: il “feeling” tra squadra e allenatore è quantomeno approssimativo e gli atteggiamenti di Arrigoni mi fanno incazzare. Nonostante tutto cerco di resistere, mi alleno con motivazioni sotto le scarpe per tutto il mese di settembre, ma  dopo il primo derby stagionale giocato e vinto contro la Gamma Varese saluto tutti e nello stupore generale smetto di giocare”.

Per così poco mi sembra una decisione esagerata e autolesionista: sei d’accordo?
“A margine ammetto che il mio comportamento in quel frangente è orribile, da ragazzino capriccioso e immaturo. Col senno di poi sarebbe stato più opportuno adeguarsi ai nuovi indirizzi societari e allenarsi con grande impegno senza fare tante storie. Invece il mio carattere ribelle e poco incline ai compromessi prevale. Per me è stop e, a parte qualche mese in cui gioco a Gallarate in Promozione, appendo davvero le scarpe al chiodo”.

Colgo molto rammarico e una sorta di dispiacere catartico nelle tue riflessioni: quante volte ti sei pentito per quella scelta tutta “di pancia”?
“Mi sono pentito millemila volte, ma quando ormai ero adulto maturo e consapevole però, a 17, anni avevo un temperamento fumantino e poco gestibile, tant’è vero che nel mio curriculum di ribelle ho delle polemiche con coach Arrigoni anche durante un allenamento da aggregato con la  serie A con giocatori come Ossola e il Menego che mi guardavano come fossi un alieno. Comunque, ripeto, smettere con la pallacanestro seria a soli 17 anni avendo sul petto lo scudetto dei Campioni d’Italia è stata la più grande e immensa cazzata della mia vita”.

E’ il momento giusto per raccontare qualche aneddoto…
“Ti racconto di quando Raga all’inizio della stagione 73/74 si rompe la clavicola. Coach Gamba appena approdato a Varese ordina ai play/guardie di stare a 2 a 2 nel cerchio di centro campo, palleggiando con una mano e cercando di rubare palla all’avversario con l’altra. Chiede di fare l’esercizio con furore agonistico e dice che vuole vedere il sangue per terra. Iniziano Raga e Polzot, ma il furore agonistico sfocia presto in una battaglia e dopo un contatto davvero duro il messicano urla di dolore: clavicola rotta, il volto di coach Gamba allibito e il mio quasi in lacrime perchè il messicano volante ai miei occhi è  un idolo intoccabile”.

Altro episodio?
“Nel settembre 1973 l’Ignis viaggia verso Bolzano per un torneo e coach Gamba convoca alcuni giovani tra cui il sottoscritto. In albergo sono in camera con Morse e Lucarelli e scopro come dormono i lunghi veri: di traverso su tre letti accostati l’uno all’altro. A pranzo tutti ordinano un antipasto “sportivo” di solo prosciutto crudo. Io, altoatesino nativo di Malles Venosta, chiedo se posso avere dello speck che, sostanzialmente, è pur sempre prosciutto. Coach Gamba, che non conosce le mie origini, mi dice di non fare lo stravagante, con aggiunta di  pubblico rimprovero, tanto  mortificante quanto gratuito. Questo siparietto non fa che accrescere in me l’insofferenza per questi nuovi allenatori ex Simmenthal che a Varese abbiamo visceralmente imparato, fin da piccoli, a considerare nemici. Tornando a casa in auto con Dodo Rusconi, nella mia testa matura per la prima volta l’idea, ribadisco malsana, di lasciare la grande famiglia Ignis”.

Quale personaggio extra-gruppo vorresti citare?
“Il mio pensiero corre subito e senz’altro a Sandrino Galleani, il top dei massofisioterapisti della pallacanestro italiana. Galleani non solo ha curato con grandissima professionalità intere generazioni di cestisti ma, ecco la sua particolarità, non faceva differenze tra il campionissimo affermato, i Meneghin, Morse, Zanatta o Yelverton, e l’ultimo ragazzino della squadra Allievi. Per lui eravamo tutti giocatori di Pallacanestro Varese. Punto. Quando avevamo un acciacco e venivamo curati da Sandro ci sentivamo in Paradiso e uscendo dallo spogliatoio, con gli occhi pieni di gioia e stupore, raccontavamo ai compagni: “Oh ragazzi, mi ha curato Galleani”. E, taac, ci sentivamo subito meglio”.

Chi scegli per il tuo quintetto della vita?
“Troppo facile, è quello del titolo: Bessi, io, Salvaneschi, Lepori, Gualco”.
Quello della serie A?
“Ossola, Rusconi, Raga, Morse, Dino Meneghin”
L’allenatore della vita?
“Brunetto Brumana è sicuramente quello decisivo, poi Franco Passera e infine Dodo Rusconi”.

Hai, per dirla alla maniera di Maurizio Costanzo, un tuo “rododentro”?
“Ho smesso troppo presto per permettermi il lusso di avere dei rimpianti però, se si può parlare di rammarico riflesso, allora tiro in ballo Massimo, il mio fratellino. Ho il rammarico che lui non sia arrivato più in alto perchè Max aveva un talento che io, e molti altri, potevamo solo sognare. A mio parere per il concetto, assolutamente sbagliato, che l’erba del vicino è sempre più verde non è stato trattato, nè valutato nel modo giusto. Massimo, ne sono convinto, avrebbe meritato molto, infinitamente di più”.

C’è ancora pallacanestro nella tua vita?
“In televisione seguo l’Eurolega perchè a quel livello la pallacanestro è davvero un bellissimo sport. Il campionato italiano invece mi appassiona ben poco anche se, raramente, ogni tanto faccio qualche sporadica presenza a Masnago. Poi, fino allo scorso anno, seguivo il basket giovanile perchè mio figlio David, classe 2004, giocava nel San Pio X°, ma adesso ha smesso. Evidentemente c’è un fil-rouge che lega gli uomini di casa Collitorti e, per così dire, li obbliga a smettere con la pallacanestro da giovanissimi”.

Come vuoi chiudere la tua vicenda?
“Adesso che siamo arrivati alla fine del mio racconto ti voglio raccontare il vero segreto del nostro gruppo, ovvero i cavalli”.

Come, scusa, hai detto i cavalli?
“Esatto, i cavalli, o per meglio dire le infinite ore passate a giocare ai cavalli quando eravamo ragazzini. Però, su questo punto non vorrei essere equivocato. Sto parlando di un gigantesco plastico che, a casa Gualco, raffigurava la pista di un ippodromo. Quasi tutti noi ci trovavamo da Maurizio per giocare prendendo dei soldatini, togliendo dalle selle indiani o cow-boy e infilandovi sopra improbabili fantini costruiti col pongo. Ogni fantino aveva ovviamente una giubba coi colori sociali scelti da ognuno e davamo vita a interminabili corse al galoppo. Ebbene, intorno a quei pomeriggi passati in giardino dal “Mau”, o al campetto dell’oratorio, o in piscina a Monate d’estate, sono spensierati, pieni di allegria, amicizia, prese in giro talvolta ironiche e altre feroci, generosità e divertimento abbiamo inconsapevolmente costruito il nostro volersi bene, il rispettarsi e l’aiutarsi l’un l’altro. Abbiamo, questo è il mio vissuto, costruito il nostro “essere squadra”. Ed è esattamente in quei momenti in cui perdevi l’ipotetico “Merano”, o il “Gran Premio Presidente della Repubblica” o il famoso “Arc de Triomphe” che invece cominciava la nostra epopea vincente. In quel clima sereno, impastato di affetto e rispetto reciproco è iniziata, permettimi di sottolinearlo, la grande storia della classe ’56, ’57, ’58. Una storia che grazie all’organizzazione di Mau Gualco, e alla collaborazione di tutti continua, bellissima, ancora oggi”.    

Massimo Turconi

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