Eravamo pochi. Cinque o sei, una decina al massimo. Sparsi qua e là nell’immensità del palazzetto. Adepti di una chiesa “Gli adoratori di Marco Dellacà“, sorta proprio in quegli anni. Roba da iniziati. Roba solo per fedelissimi. Tra di noi non ci conoscevamo. Direi, piuttosto, che ci ri-conoscevamo l’un l’altro. Anche a grande distanza. Grazie a segnali quasi impercettibili. Grazie al famoso linguaggio del corpo. Per esempio eravamo gli unici ad applaudire calorosamente quando lo speaker al palazzetto, il mitico Johnny Leonardi, annunciava il nome di Dellacà. E a noi, Leonardi, uno che giusto per ricordarlo, veniva a Masnago agghindato con una terribile pelliccia lunga fino ai piedi e pantaloni infilati dentro a stivaloni da cow-boy, sembrava lo annunciasse con studiata enfasi.

Ma ancora, eravamo gli unici che durante il riscaldamento della Pallacanestro Varese seguivamo con gli occhi solo lui.
Certo, nella ruota di riscaldamento potevi notare le prodezze di Morse, Meneghin – Dino Meneghin, please, Yelverton, Ossola, Zanatta, Iellini, Bisson e compagnia, ma a noi interessavano solo i movimenti plastici e naturali di Dellacà, playmaker-guardia classe 1961 dotato di straordinario, e a nostro insindacabile giudizio, incommensurabile talento.

Eravamo gli unici a sfregarci le mani nelle rare occasioni in cui gli allenatori concedevano minuti di gioco al nostro idolo.
Sapevamo tutto di Marco e, del resto, eravamo o no i suoi “apostoli”? Lo seguivamo fin dai primi anni in cui, giocando da favoloso protagonista nel settore giovanile della MobilGirgi, spiegava pallacanestro come Gesù spiegava il verbo ai bambini nel tempio.

Per farla breve: tutti noi avremmo giurato e scommesso un braccio che Dellacà sarebbe arrivato dritto, sparato in Serie A. Magari proprio a Varese, prendendo il posto del suo maestro Charlie Yelverton.
Invece, l’anno successivo da Emerson Varese, quindi nella stagione 1979 – 1980, Dellacà viene ceduto in prestito all’Alpe Bergamo, in B unica e allora noi “Adoratori” cosa facciamo?

Semplice, appena “Mamma Varese” lo consente ci trasferiamo sulle tribune del palazzetto di Viale Tiraboschi e lì, sempre tra sguardi muti e timidi sorrisi di intesa varesina, vediamo che il nostro Marco continua a spiegare: innumerevoli ventelli da esordiente in categoria; personalità d’acciaio, partite di altissimo rendimento illuminate come sempre dal suo talento accecante. Elementi che, a soli 18 anni, lo collocano tra i migliori giocatori dell’intera B.

Insomma a Dellacà basta mezza stagione a Bergamo per  confermare le nostre idee: Marco è uno che arriverà facile al vertice. Magari non a Varese, ma ci arriverà. Garantito come l’oro

Invece, invece
“Invece – è proprio Dellacà a prendere la parola -, è un destino cinico e maledetto quello che mi infila il bastone fra le ruote e mi impedisce di giocare in serie A, un livello che, sia detto senza falsa modestia, avrei meritato. Un palcoscenico che, aggiungo senza ipocrisia, avrei meritato già a Varese, non fosse stato per scelte non esattamente adeguate fatte da altri”.

Cosa intendi dire?
“Beh, la Pallacanestro Varese di quegli anni me la confeziona abbastanza “sporca” promuovendo in prima squadra giocatori bravi, nulla da dire, ma stando al giudizio unanime di altri allenatori e addetti ai lavori decisamente inferiori al sottoscritto. Così, non potendo stare in Paradiso a dispetto dei santi e avendo un carattere poco malleabile e zero accondiscendente, percorro altre strade, nella fattispecie quella di Bergamo, giocando con dentro una rabbia e voglia di rivincita con la quale avrei buttato giù a testate anche i muri”.

La tua grandissima motivazione si pianta però con quel “bastone fra le ruote”…
“Esatto, in quel periodo mio padre Piero – ricorda Dellacà con gli occhi lucidi -,  che ha un avviatissimo bar, “La caffettiera”, in via Sanvito Silvestro, è accusato di estorsione, portato ai “Miogni” senza passare dal via, gettato in pasto all’opinione pubblica e trattato come uno dei peggiori criminali della storia. Tuttavia, mentre trascorre alcune settimane in carcere indagini più approfondite scoprono che mio padre, uomo onestissimo e assolutamente specchiato, non c’entra nulla con una vicenda rispetto alla quale il solo colpevole è un cameriere e purtroppo nostro infedele dipendente. Ormai però la velenosissima frittata è stata fatta perché entrambi i miei genitori sotto il profilo fisico accusano pesantemente il colpo. Nel giro di pochi mesi lo stress, l’ansia e lo scoramento causati da un’incredibile e pazzesca situazione stroncano la vita di mio papà e accelerano la grave malattia di mia mamma Lucia. Di fatto, nel giro di un anno perdo entrambi i genitori e a quel punto, mio fratello Giacomo che ha cinque anni più di me, mi richiama a Varese chiedendomi quali fossero le mie intenzioni e i miei programmi per il futuro. In buona sostanza Giacomo vuol sapere se può contare sul mio aiuto per portare avanti l’attività del bar di famiglia. Ovviamente, per rispetto nei confronti degli enormi sacrifici fatti dai miei genitori, rispondo “Presente!”. Così, seppur con grandissimo rammarico, lascio Bergamo a stagione non ancora ultimata e vedo sfilare davanti a me il treno del basket professionistico perché, ribadisco, dopo una serie di prestazioni importanti nella sede della Pallacanestro Varese in via Cairoli arrivano una dietro l’altra importanti offerte da parte di squadre di A2 e A1″.

A questo punto, se me lo consenti, metterei per un momento nel freezer il tuo racconto e partirei dall’inizio di quella che, non per colpa tua, è stata una carriera a metà. Quando comincia la tua storia con la pallacanestro?
“Nasco a Orzinuovi, Brescia, il 19 febbraio 1961. La mia famiglia per qualche anno vive a Garlasco finché, anno 1973, stabiliamo le residenza a Varese. Tramite Mario Alioli, noto pittore amico di famiglia entro in contatto con “Picchio” Cadini, classe 1958, buonissimo giocatore in Pallacanestro Varese ed è proprio grazie a “Picchio” che mi avvicino alla  pallacanestro. Cadini infatti mi porta nella “storica” palestra di via Rainoldi nella quale coach Manuel Campiglio dopo avermi “provinato” mi dice: “Ok Marco, sei dei nostri”. Così, in modo abbastanza improvvisato, comincia la mia avventura con il basket e con il gruppo in verità abbastanza sparuto dei nati nel ’61. Noi “61’ers” siamo pochini: Costagliola, Landoni, Leo Fiore, Conte e anno dopo anno siamo sballottati avanti e indietro con le varie squadre. Da “giovani” integriamo i ragazzi del ’58, ’59 e ’60. Da “vecchi” accogliamo il gruppo dei ’62 che in effetti è molto forte e numericamente completo. Questo continuo scendere e salire tra vari gruppi e annate ha risvolti molto positivi perché mi consente di allenarmi e giocare al piano di sopra con e contro ragazzi più maturi fisicamente e più forti tecnicamente e al mio piano di riferimento contro coetanei che invece, nella maggior parte dei casi, hanno evidenti lacune. Inoltre, il sistema è esattamente quello che vuole coach Carlo Colombo, grandissimo allenatore che, in anticipo su tutti, spinge perché i giovani più dotati si misurino prima possibile con categorie giovanili più elevate rispetto a quelle effettivamente previste dall’anno di nascita. Così io già a livello Allievi gioco da protagonista anche con Cadetti e Juniores e aumento in maniera esponenziale il mio bagaglio come giocatore. Ad ogni modo, anche se non mi sono mai messo al petto uno “scudettino”, considero la mia carriera giovanile davvero soddisfacente. Ho l’orgoglio di aver partecipato a 6 finali nazionali –  mi ricordo solo Santa Margherita Ligure, Monopoli, Pescara, Rieti – e ben 4 finalissime per il titolo”.  

Così, in virtù di forza e talento, entri abbastanza presto nel giro della prima squadra
“Esatto: già nella stagione 1976 – 1977 coach Sandro Gamba mi vuole come aggregato alla Serie A ed è superfluo aggiungere che per me è come toccare il cielo con un dito. Figurati poi quando coach Gamba mi fa esordire in serie A, a Masnago contro la Sapori Siena. Per me si tratta di una data memorabile, 2 dicembre 1976,  anche perché al debutto segno subito un canestro clamoroso: in acrobazia passando non so come sotto le braccia protese di due super lunghi: Bovone, 211 centimetri, e Johnson, “solo” 209. Però, a parte qualche altra sporadica apparizione in quella straordinaria e fortissima Pallacanestro Varese là non c’era verso di vedere il campo o comunque “rubare” minuti ai sette-otto titolari anche perché loro, anche avanti di venti-trenta punti, volevano sempre giocare”.

E quindi?
“Quindi, niente. Durante la settimana noi giovani ci facevamo un mazzo gigantesco con doppio, a volte triplo allenamento e al più, ci sfogavamo durante le partitelle di preparazione. Per esempio ricordo che nel preparare una gara di Coppa Campioni contro il Real Madrid coach Rusconi mi assegna il ruolo di Corbalan, famoso playmaker madridista, e mi chiede di essere pericoloso in attacco. Detto, fatto: per una decina di azioni faccio sempre canestro e in tutti i modi possibili. Il quintetto dei titolari – Ossola, Gualco Yelverton, Morse e Meneghin – impazzisce e coach Dodo Rusconi, incazzato come un toro, sospende la partitella obbligando i titolari a correre su e giù per i gradoni di Masnago. Io comunque, senza  ipocrisia e falsa modestia, ero davvero forte e se mi mettevo in testa di far canestro non ce n’era per nessuno. Prova a domandare a Mike D’Antoni, non un “frullino” qualsiasi, che “paiolo” gli ho fatto in un torneo pre-stagionale a Borgotaro: 14 punti in meno di dieci minuti con il povero Mike che non sapeva più come provare a fermarmi. Prova a chiedere referenze anche ai miei compagni in Nazionale Juniores: Fantozzi, Sbarra, Innocentin, Costa e altri ancora. Prova a chiedere informazioni ai “famosi” della Olimpia Milano classe 1958 finiti dietro al sottoscritto in un prestigioso torneo Junior a Bologna nonostante avessero 2-3 anni più di me. Insomma: la serie A era il mio campionato o, come si dice adesso, la mia “comfort zone” e, pur al netto di una controprova che manca, sono convinto che senza i guai famigliari che ho già descritto ci sarei arrivato”.

Intanto, eccoci arrivati al punto di congiunzione dei cerchi: cosa succede dopo che torni a Varese per le note vicende? 
“Come detto, la pallacanestro purtroppo per me entra in una dimensione dopolavoristica quindi la stagione successiva, anno 1980-1981, accetto la proposta, anzi, la mega-proposta del Basket Angera, categoria Promozione. Il club sulla spinta del munifico e ambizioso presidente Zanitella vuole creare un polo cestistico importante nella città lacuale. Zanitella, senza badare a spese, nel giro di un paio di stagioni costruisce uno squadrone che in categoria è assolutamente illegale. Oltre al sottoscritto ci sono fior di giocatori come Pozzati, Crippa, Massimo Collitorti, Bonomi, Magnani. Il primo anno perdiamo la finale playoff contro Ponte Tresa, mentre il secondo anno il nostro dominio è così netto che a due terzi del campionato abbiamo già in tasca la vittoria matematica. Purtroppo, però, in quegli anni la sfortuna mi perseguita anche in maniera indiretta perché a poche settimane alla fine della stagione il “Pres” Zanitella muore improvvisamente. Senza il suo trascinatore il Basket Angera salta per aria perché nessuno degli altri dirigenti se la sente di sobbarcarsi le spese e noi giocatori ci ritroviamo tutti per strada e senza squadra. Durante l’estate si fa viva la Robur et Fides che dopo una laboriosa trattativa rileva il mio cartellino da Basket Angera. Così riparto di nuovo da Varese, praticamente sotto casa, in serie C, con coach Dodo Colombo alla guida di una squadra davvero buona con cui realizziamo subito il salto in serie B. Al piano di sopra arriva però coach Dodo Rusconi col quale, già dai tempi trascorsi in Pallacanestro Varese, non ho grande feeling. Ovviamente e puntualmente dopo alcuni mesi di rapporto arrivano i primi litigi con corollario di musi lunghi e scarsa serenità. Così dopo l’ennesima discussione durante un match a Pavia non finisco nemmeno la stagione, riconsegno la borsa e torno a lavorare al bar di famiglia”.

Dovessi usare una metafora cara agli americani direi: nonostante tutto e non per colpa tua, sei di nuovo sul marciapiede…
“In effetti è proprio così – risponde Marco -. Dopo 18 mesi di pallacanestro giocata a buoni livelli, mi ritrovo di nuovo senza squadra, ma in questo caso interviene il mio “angelo custode”: coach Dodo Colombo. Dodo, mi vuole con lui a Gorla Maggiore, in serie D, dove nel frattempo si è accasato. A mia volta chiamo Mauro Buzzi Reschini il quale, per motivi famigliari, ha lasciato il gruppo roburino e lo convinco a fare squadra con me alla Gorlese. Credo che Buzzi Reschini non finirà mai di ringraziarmi per aver tanto insistito. Infatti, come in tanti ben ricordano, Mauro, giocatore e ragazzo meraviglioso, da lì in avanti diventerà un vero idolo per i tifosi di Gorla. Roba che se Mauro lo avesse chiesto gli avrebbero costruito un monumento equestre nella piazza principale. In ogni caso anch’io considero l’esperienza cestistica vissuta alla Gorlese come una delle più interessanti tecnicamente e più belle sotto il profilo umano. Vinciamo 3 campionati consecutivi salendo dalla Promozione alla serie B. Nell’anno di serie B una giuria di allenatori e giornalisti specializzati mi inserisce nel quintetto ideale perché, è un dato oggettivo, metto in scena un campionato di alto livello e insieme a Maurino formiamo sicuramente la coppia di esterni più forte di tutta la serie B. Umanamente conservo il ricordo di tre squadre stupende per coesione in campo e amicizia in spogliatoio. In particolare mi soffermo sul primo anno trascorso in grandissima serenità insieme a ragazzi come Carlo e Luigi Caccia, Franco Magnani, Angelo Galmarini. Tutti buonissimi giocatori, ma soprattutto ragazzi umili, seri, animati da una grandissima passione”. 

Però, quasi fosse il ritornello della tua carriera, anche a Gorla sul più bello molli il colpo. Come mai?
“Il motivo è semplice: cambiano in maniera radicale le prospettive della mia vita. Nel 1987 vendiamo il bar e insieme a mia moglie Chicca, grandissima appassionata di cavalli, compriamo un maneggio a Bisuschio. Un’attività che, come puoi benissimo immaginare, vive il suo massimo fervore nel fine settimana. Quindi, anche se col cuore spezzato dal dispiacere perché giocare a pallacanestro è una delle cose più belle della mia vita devo ridurre gli impegni col basket. Trovo squadra a Cassano Magnago in serie D e allenato da un personaggio di simpatia unica come Ermanno “Mago” Colombo. Nel frattempo l’attività al maneggio cresce – abbiamo più di 40 cavalli – e va a gonfie vele come, del resto, la pallacanestro perché dopo aver vinto a mani basse la serie D a Cassano, mi trasferisco per 4 stagioni a Omegna, dove colleziono un’altra promozione in serie C. Purtroppo però le vicende bastarde della vita mi mettono davanti ad un’altra prova durissima: un grave incidente stradale dal quale mia moglie esce con parecchi problemi. Difficoltà che, ancora una volta, mi obbligano a collocare la pallacanestro in posizione subordinata. Dal punto di vista lavorativo per me sono anni davvero pesanti con un livello di saturazione e stanchezza che raggiunge il massimo consentito. Il basket ormai è solo un passatempo tra amici a Ponte Tresa, club in cui gioco per una decina d’anni fino a che, stagione 2003-2004, chiudo in bellezza a Laveno e dopo aver vinto l’ultimo campionato, promozione dalla D alla C2, appendo le scarpe al fatidico chiodo. Da allora, mai più fatto un tiro, nemmeno per caso”.

Insomma: trent’anni di carriera comunque intensa e vincente, portandosi appresso il tuo mitico soprannome: Rude.
“Su questo punto vorrei però fare un po’ di chiarezza. Sono in tanti quelli che pensano che il soprannome “Rude” derivi dall’immagine che avevo da giovane: capelli e barba rossicci perennemente arruffati che, spesso per ragioni lavorative, accompagnavo a stivaloni e Stetson da cow-boy. Invece, queste cose non c’entrano nulla perché il soprannome mi è stato appiccicato addosso da Mauro Lozza, mio compagno nelle giovanili della MobilGirgi Varese. Lozza si presenta un giorno all’allenamento dicendomi: “La tua regia in campo è come quella del “Rude Baldazzi”, ai tempi famosissimo regista della trasmissione “L’altra domenica” con Renzo Arbore. Da quel momento in poi per tutti sono diventato “Rude” e, devo dire, mi va bene così perché, per carattere, un po’ mi ci riconosco”.     

Parliamo dei personaggi che hai incontrato a tutti i livelli nel mondo del basket: da chi vorresti cominciare?
“Se parliamo di livello senior, il primo non può che essere Yelverton che, senza il minimo dubbio, è stato il giocatore a cui più mi sono ispirato. Mi sono allenato per anni insieme a Charlie cercando i imitarlo in tutti i movimenti tecnici perché Yelverton era un fenomeno, un giocatore strepitoso, inarrivabile, oltre che un uomo stupendo e di grandissima generosità. Se invece parliamo di settore giovanile il primo pensiero è per il mio playmaker Massimo Collitorti. Insieme formavamo una coppia da paura, una delle migliori in Italia per capacità tecniche, estro, creatività e soprattutto talento. Tanto talento. Mi è dispiaciuto non aver visto Massimo ad altissimi livelli come avrebbe certamente meritato. Restando in argomento  talenti inespressi cito, anche se per ragioni completamente opposte, Valentino Schizzarrotto e Riccardo Montesi. “Schizza” era un giocatore semplicemente incredibile, perfetto in tutto, attacco e difesa, e già a 16-17 anni possedeva il passo del campione. Ricky Montesi invece era una guardia con talento mai visto e qualità  fisico-atletiche mostruose. Uno che, per darti l’idea, pur non essendo non più di 190 cm. era capace di schiacciare da fermo dieci volte di fila. Montesi proveniva da un club veneto ed era però il classico cavallo pazzo. Ingestibile e indomabile. Uno che scappava dal Convitto De Filippi una notte sì e l’altra pure al punto che i dirigenti della società e gli allenatori, stanchi delle sue scorribande senza senso, prima gli lanciarono un ultimatum, poi lo rispedirono a casa definitivamente”.

Chi piazzi invece nelle “nomination” dei tuoi allenatori?
“Ai miei occhi rivestono grandissima importanza gli allenatori che ho avuto a livello giovanile: Manuel Campiglio, Bruno Brumana e soprattutto Carlo Colombo. Invece, a livello senior, nel corso degli anni ho capito meglio il grande valore di coach Dodo Colombo. Un allenatore duro, esigente, senza troppi fronzoli, ma sempre sincero, diretto e in possesso di una qualità unica: era sempre al fianco dei giocatori per  migliorarli e, di conseguenza, migliorare la squadra”.

Il tuoi quintetti? Quello di Serie A? E quello “della vita”?
“Per la Serie A è facile: Ossola, Yelverton, Zanatta, Morse e Meneghin. Come cambi scelgo due giocatori fortissimi, che mi mandavano letteralmente fuori di testa: John Fultz e Chuck Jura.
Per quello della vita, insieme a me voglio Collitorti, Buzzi Reschini, Schizzarrotto e Lupo Galmarini. Con due cambi irrinunciabili: Angelo Galmarini, uno che con la palla in mano faceva quello che voleva e Enrico Pol, un grande amico”.

Rifaresti le stesse scelte?
“Se il sottotitolo della domanda è: hai rimpianti? La risposta, netta e sincera, è: no, non ne ho. In quei momenti, intendo quelli legati al mio dramma familiare, non potevo agire diversamente. Oggi invece, col senno di poi, mi comporterei in modo differente e pur tenendo in considerazione il lavoro dei miei genitori, non smetterei di giocare a pallacanestro. Ma il senno di poi non esiste. Quindi…”  

Oggi, c’è ancora pallacanestro nella tua vita?
“No, il basket è scomparso quasi del tutto. Seguo in maniera molto approssimativa le vicende della Pallacanestro Varese e anche se può sembrare incredibile, sono ormai parecchi anni che non metto piede a Masnago. Però – conclude con voce emozionata Marco -, il mio tempo passato con la pallacanestro rappresenta un diamante purissimo nella mia vita e, questo, fortunatamente non me lo porterà via nessuno”.

Massimo Turconi

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