Sempre sedotti dal fattore umano. Sempre attratti da quelle persone che fanno. Che concretamente dimostrano. Che senza tanti proclami lavorano. In palestra e altrove. Cibandosi di passione che, poi, trasmettono. Che, parlando di pallacanestro, vivono di, e per, un pallone arancione che rotola, rimbalza e ogni tanto uscendo dalla retina col suo dolcissimo “ciuff” rinnova un’eterna e inconfondibile magia.

Persone semplici, ma vere, genuine. Come Romano Pagani, iconico personaggio che nella galassia dei “pianeti Robur et Fides” occupa, da oltre 40 anni – sottolineo: quaranta anni -, un posto di assoluto rilievo. Prima come giocatore-trascinatore-capitano-simbolo-esempio. Poi come allenatore sempre a disposizione nonché, da un qualche stagione, responsabile del settore giovanile di via Marzorati.

Romano, uomo che ha elevato ad arte l’understatement è uno di quelli che ci sai che ci sono. Di quelli che “vanno in produzione” senza alcun bisogno di alzare la voce e senza sentire la necessità di richiamare a sé i riflettori. Romano, detta in poche parole, è la rappresentazione plastica di un termine non esattamente frequente nel mondo dello sport: umiltà.

Ma, attenzione, badate bene, quella di “Roma” non è l’umiltà dei remissivi, di quelli che vivono un po’ “da rassegnati”. Tutt’altro. Quella di Romano è l’umiltà di chi, consapevole del proprio valore, sa che non c’è bisogno di sbandierarlo sempre ai quattro venti. Però, per raggiungere quel valore, giusto evidenziarlo un milione di volte, il buon Pagani s’è lasciato alle spalle ettolitri di sudore, immani fatiche, interrogativi esistenziali e dubbi laceranti, momenti di folgorante esaltazione accompagnati da rapide (ripide??) discese nel dubbio. Fin dal primo giorno in cui, era l’estate del 1977, da quindicenne allampanato, mette il piede a Varese. Dove?
“Nientemeno che nella squadra dei nati nel 1962 che – ricorda Pagani -, quella che in provincia di Varese tutti conoscono perchè vincitori, l’anno prima, dello scudetto nella categoria Allievi. Ovviamente la prima domanda che mi sono posto è: “Ma che ci faccio qui? Cosa c’entro con questi ragazzi che sono tutti buonissimi giocatori, grandi, grossi, atletici, talentuosi e belli come il sole? Io, per esempio, sembro il cuginetto rachitico di Tosarini perché Diego, rispetto a me, è già un uomo fatto, finito e, come si usa dire, con tanto di “baffi e valigetta 24 ore”.

“Ma anche il confronto con gli altri è oggettivamente improponibile – continua il “Roma” – perché Collitorti e Zanzi hanno un talento pazzesco, Buzzi Reschini, fisicamente è un “cannetta” come me, ma tratta la palla divinamente che sembra un Harlem. E via di questo passo anche con gli altri: Gadda, Milanese, Caneva e compagnia. Del resto, io arrivo a Varese dal Basket Cislago, società in cui opera mio zio Mario Ceriani – oggi il sciur Mario, personaggio notissimo e di grande spessore baskettaro ne è il presidente – e oltre ad aver iniziato piuttosto tardi ho alle spalle poche sedute di allenamento e fondamentali tutti da rivedere. Quindi, il primo anno a Varese vola via accompagnato da tantissimi allenamenti e come prevedibile pochissimi minuti giocati. Però, la stagione successiva targata Emerson Varese, ha già più senso e grazie anche ad un evidente miglioramento delle qualità fisiche e atletiche le distanze tra me e gli altri ragazzi del gruppo si riducono sensibilmente. Così riesco a tenere il campo in modo dignitoso, lo staff tecnico mi aggrega agli allenamenti della serie A e offro il mio contributo partecipando alle finali nazionali in programma a Capo d’Orlando”.

Intanto scoccano gli anni ’80 e tu sei già presente a livello senior.
“Esatto: io, Buzzi, Caneva e Zanzi entriamo nello scambio che porta Cecco Vescovi dalla Robur alla Pallacanestro Varese mentre noi quattro facciamo il percorso inverso. Prospettiva: continuare il percorso giovanile disputando il campionato Juniores Nazionali con la maglia della Robur, ma soprattutto, anzi direi massimamente far parte della rosa della prima squadra che gioca in serie C”.

Impatto col mondo senior?
“Terribile e straordinario al tempo stesso, specialmente per me che, rispetto ai miei coetanei e compagni d’avventura, pago ancora dazio alla voce esperienza di gioco attivo. Però, dopo i primi mesi trascorsi tra evidenti timori e comprensibili imbarazzi, comincio a capire quali sono i miei compiti, quale può essere il mio ruolo e quali sono le modalità di funzionamento tra i “grandi”. Cerco di trasformare positivamente tutto questo “capire” lavorando come un mulo in palestra. Allenamento dopo allenamento provo a far mio tutto quello che posso da eccellenti giocatori come Balanzoni, il mio maestro “in pectore”, quello da cui, anche per affinità caratteriale ho preso di più; Guidali, Canavesi e Toto Rodà. Per amore di precisione devo aggiungere che anche “il Totino” contribuisce non poco alla mia crescita perché i suoi fantastici passaggi al laser hanno per l’effetto-sveglia. O sei sempre attento e concentrato oppure li prendi sul muso e posso assicurare che tutto ciò non era esattamente piacevole. Comunque, il mio primo tra i senior anno si conclude alla grande con la nostra promozione in serie B e progressive apparizioni sul parquet. La serie B, però, è durissima e trovare spazi di gioco continuativi a quel livello è davvero complicato, specialmente quando, come successo a me, hai davanti giocatori che sono dei veri mostri sacri”.

E, allora, quand’è che Pagani diventa… Pagani
“Il mio punto di svolta, il vero cambio di passo, avviene l’anno dopo quando, mio malgrado, mi ritrovo nella rosa delle Forza Armate. Inizialmente la mia delusione è visibile e palpabile perché rispetto alla gran parte dei miei coetanei io devo indossare il grigioverde, mentre loro sono riusciti ad evitare il servizio militare. Invece, col senno di poi, mi rendo conto che l’occasione offertami dal Colonnello Marinangeli, responsabile della squadra delle FF.AA., è semplicemente fantastica e, concretamente, sarà quella destinata a cambiare la mia vita come giocatore”.

Perché?
“Semplice: nelle FF.AA. in serie B1 ho l’opportunità di giocare da titolare, spesso 40 minuti filati, di essere protagonista, di gestire palloni pesanti e soprattutto di sbagliare, senza soffrire la pressione e senza troppe menate accessorie. In quella stagione – 4 vittorie e 26 sconfitte – retrocediamo a picco, ma l’esperienza di gioco si rivela impagabile perché mi regala  sicurezza tecnica, caratteriale e fiducia in me stesso che prima non possedevo. Il primo ad accorgersi della mia metamorfosi è naturalmente zio Mario che, al mio ritorno, durante un torneo estivo mi dice: “Uellà “Roma”, adesso sì che hai il passo del giocatore”. Adesso sì che può iniziare la tua vera carriera”.

Un’avventura cestistica che, come abbiamo già detto, è marchiata a fuoco Robur: con la canotta della R&F hai giocato una vita.
“Lontano da via Marzorati trascorro solo due stagioni. Quella già citata alle FF.AA. e un’altra, a metà anni ’90, in cui gioco per la squadra di mio zio, a Cislago, in serie C2. Per il resto, un ventina di campionati roburini quasi tutti spesi da tra B1 e B2. Vent’anni trascorsi tra momenti agonisticamente indimenticabili e altri in cui mi è toccato, anzi, ci è toccato ingoiare rospi giganteschi associando a “delusione” il termine playoff. Perché, è un fatto, i campionati persi per un soffio, per un nulla, per una tripla tirata dagli spogliatoi o per qualcosa che appartiene all’inspiegabile sono stati assai più di quelli vinti”.

Vorresti ricordare, come pare a te, anche in ordine sparso, alcuni di questi episodi, siano essi positivi o negativi?
“Provo a buttarti lì qualche fotografia di quegli anni partendo dai canestri e dalla tripla con cui Gatti, play-guardia di Treviglio, ci toglie dalle mani una promozione in B1 che, sbagliando valutazione, sentivamo già in tasca. Allo stesso modo posso snocciolare almeno altre due-tre serie playoff, clamorosa quella persa contro Asti, nelle quali tutti ci indicavano come squadra favorita.
Tra le sconfitte “accettabili e digeribili” metto sicuramente l’emozionante finale playoff per la serie A2 persa contro la corazzata Stefanel Trieste e giocata in palazzetti – Masnago e Chiarbola – pieni come se fosse la serie A.
Tra gli stop da incubo posiziono il -40 beccato contro uno squadrone incredibile come Citrosil Verona ed il motivo è semplice: il giorno dopo all’allenamento coach Dodo Rusconi senza nemmeno farci toccare la palla ordina 40 “suicidi” (esercizio faticosissimo fatto usando le linee di tiro libero, metà campo e fondo ndr). Uno per ogni punto subito. Tra i momenti di festa è giusto ricordare il playoff per tornare in B2 vinto contro Legnano. Un successo che ci riscatta da un paio di stagione buie e rilancia la mia Robur dopo un periodo non facile”.

Parliamo di Romano Pagani. Anzi di “quel Pagani” che a metà degli anni ’80 furoreggia ed è l’oggetto del desiderio di decine di g.m. e coach tra B1 e A2?
“Bella storia, quella – sorride di gusto Romano -. In effetti negli anni da te citati “giochicchiavo” benino e, per dire, il titolo di MVP del Girone Nord della B1 rappresenta pur sempre un’orgogliosa coccarda che mi sono appuntato al petto. Allo stesso modo ricordo come bellissime soddisfazioni le convocazioni agli “All Star Game” di categoria. Tutto ciò per confermare che, è vero, dai 24 ai 30 anni ogni estate ho ricevuto offerte da vari club di A2 o molto ambiziosi in B1 – Rieti, Porto san Giorgio, Latina, Trapani -, ma ho sempre declinato le proposte perché non mi sentivo tagliato per la vita del professionista che, come tutti sanno, spesso è all’insegna del nomadismo e dell’incertezza. Tra l’altro in quegli anni, finito l’ISEF, avevo trovato subito una cattedra come insegnante di educazione fisica al Liceo Classico del Seminario di Venegono e gettare via quelle opportunità di vita e di lavoro per qualche stagione da professionista delle minori mi sembrava francamente un azzardo. Poi, spiegato in modo meno prosaico, non è che mi offrissero tutti ‘sti soldi e, alla fine dei conti, tra stipendio da insegnante e “rimborsi” della Robur economicamente facevamo pari e patta, ma con un grande differenza: ero a casa mia, in un club che sentivo mio, circondato da tanti amici, persone serie che ogni giorno mi dimostravano affetto, stima, rispetto e considerazione. Elementi allora, e direi anche tuttora, impagabili. In ogni caso non provo alcun rammarico per le mie scelte che ho portato avanti in maniera assolutamente convinta”.

Ok per il rammarico, ma come la mettiamo con i sogni?
“La pallacanestro è stata per me vita, amore, passione, sacrificio, gioia, sensazioni forti, emozioni e, ovviamente, come dici tu, anche sogno. Certo, avendone la possibilità non nego che mi sarebbe piaciuto provare per qualche stagione l’avventura del professionismo. Così, giusto per capire come funziona e, nondimeno, per mettermi alla prova in un contesto tecnico e mentale diverso. Ma, ribadisco, la possibilità non c’è stata o, comunque, io non l’ho colta e ho scelto un destino differente”.

Sbaglio o colgo delle analogie con il tuo percorso come allenatore?
“No, non sbagli perché, ad un certo punto della mia carriera di allenatore, mi sono trovato davanti ad un bivio e anche in quella circostanza ho imboccato la strada che pensavo fosse più onesta e rispettosa. Per me. Ma anche per gli altri”.

Descrivimi, dunque, la “circostanza”
“Il riferimento è alla stagione 2014-2015, quella in cui i dirigenti roburini mi offrono l’occasione di allenare la prima squadra in serie B2. Per me, che in Robur e per la Robur ho fatto tutto si tratta di un punto d’arrivo oltre che la realizzazione di un sogno cominciato 40 anni prima: giocatore delle giovanili, poi in prima squadra, poi capitano della suddetta, poi coach delle giovanili, poi del “Laboratorio in serie C” e, infine, della prima squadra. Invece, al termine di una stagione difficile, complicata e davvero molto sfortunata – una serie di infortuni a catena e quelli, gravi, di Realini, Rovera e Castelletta -, mi rendo conto di non essere fatto per quel mondo lì. Prendo coscienza di non avere né la lucidità, né la freddezza utili per “resettare” i risultati e le prestazioni – non importa se positive o negative – della domenica. Un reset indispensabile per ripresentarsi con la faccia serena il martedì di fronte alla squadra. Io, al contrario, seguendo il mio carattere sono incapace di fregarmene e, come si usa dire, mi porto a casa il lavoro in un circuito stressogeno che non ha mai fine. Uno stress che, credimi, mi è bastato per 100 anni, al punto di esclamare: coi senior, mai più. Da allora, sono passati ormai 8 anni, mi dedico al mio vero amore: l’insegnamento, ovvero la pallacanestro delle categorie giovanili. Da un paio di stagioni sono responsabile del settore giovanile Robur et Fides e insieme ai miei eccellenti allenatori e validissimi collaboratori stiamo cercando di rilanciare la nostra base spingendo con forza verso territori tecnici, verso una nuova didattica del basket che rifiuta i “magheggi” tattici fatti per vincere una partita in più a 14 anni. Adesso stiamo lavorando molto bene sia a livello di prima squadra con Donati e Manetta, sia nel “Lab di CSilver” con coach Mattia Botti sia, a cascata, con tutte le formazioni giovanili. Servirà tanto tempo, tantissimo lavoro in palestra e, ne siamo tutti consapevoli, tonnellate di pazienza, ma la strada sulla quale stiamo camminando con forza, convinzione e coesione è quella giusta”.

Siamo arrivati quasi al termine di questa bella chiacchierata/confessione. Resta giusto il tempo per le tue “nomination” e per lo spazio-aneddoti: vai spedito, prego.
“Parto, come d’obbligo, dalle giovanili per esaltare la presenza di alcuni ragazzi cui sono legato e che mi hanno insegnato davvero tanto: Buzzi Reschini, Caneva, Collitorti e Zanzi. Tutti in possesso di un talento clamoroso che, l’ho già detto, mi metteva in imbarazzo”.

Capitolo prima squadra. E qui mi sa che il discorso si fa lungo
“Ho già fatto accenno alla coppia Balanzoni, un leader silenzioso, e Rodà, straordinario creatore di gioco. Una menzione particolare è per Eugenio Canavesi, giocatore duro come pochi altri, che mi ha offerto numerose lezioni sul tema: “Come farsi rispettare sul parquet”. E non aggiungo altro.
Dei miei primi anni da “bambino” a livello senior mi piace ricordare le figure come Guidali, Della Fiori, Lesica e Lucarelli, maestri fondamentali per imparare il mestiere. Della mia leva ricordo Caneva, diverso da tutti noi poerchè era già professionista a 16-17 anni e Valentino Schizzarrotto che già da ragazzino era il più grande di tutti. Di “Schizza” ho, anzi, abbiamo il rammarico per non averlo visto ai livelli, ovviamente elevatissimi, che certamente avrebbe raggiunto perchè Valentino era davvero di un altro pianeta.
Delle annate successive ho ricordi buonissimi del “Conte” Prina, sfortunato talento che avrebbe meritato sicuramente di più; Mitch Crespi, ragazzo fantastico e grande cervello cestistico; “Vins” Sciacca, simpatico e sempre allegro; tutto il gruppo ’66-’67 Gigi Piatti, Vasini, Chicco Zorzi, Macchi, Censi, Baldini, Curtarello. Poi; via via citati in ordine cronologico conservo flash importanti per Brignoli, Bianchi, Fontanel, Coerezza; Di Sabato, Dell’Acqua, Malavasi, Mantovani, Mondello, Fanchini, Borghi, Premoli a cui se non ricordo male ho ceduto la fascia di capitano-Robur, Passera, Gatti, Rovera, Andrea Colombo e tutto il gruppo del nati nell’82. Infine, quando ormai ero agli sgoccioli della carriera Jack Ucelli. Aver visto passare e soprattutto aver conosciuto almeno sei generazioni di ragazzi/giocatori è la cosa più soddisfacente perchè da tutti, anche da quelli molto più giovani di me, ho imparato qualcosa e, spero, di aver restituito almeno in minima parte ciò che ho ricevuto”.

Allenatori?
“Da junior sicuramente Brunetto Brumana, anche se Carlo Colombo e Franchino Passera per me hanno fatto molto. A livello di prima squadra ho spazio per Dodo Colombo, che pur con i suoi modi bruschi mi ha messo fra le mani l’ABC; Dodo Rusconi, Beppe Gergati, Arturo Benelli e, menzione speciale, per Tony Trullo, mio coach alle Forze Armate che, davvero, è stato quello che mi ha lanciato”.

Dirigenti?
“Anche per loro non faccio classifiche. Non sarebbe giusto. Però porto nel cuore alcuni personaggi. Il primo è Renato Passi, mio mentore, “Zio” in grado di offrire sempre buoni consigli, e il suo eterno motto: “Eh, però, il Chuck (Jura, grandissimo giocatore degli anni ’70 ndr), è come la mamma. E’ unico.
Poi, il “sciur” Dante Trombetta: sentire al centro Robur la sua voce tonante era come sentire suonare la carica: non potevi non correre, difendere e cambiare faccia. E, ancora, Giancarlo Gualco, grande general manager con una visione dell’organizzazione del basket e sportiva avanti di 50 anni e Gianni Asti, splendido personaggio roburino a 360°. Asti, allenatore e consigliere per centinaia di giocatori e allenatori roburini, è stato per me (ma anche per altri) una presenza importantissima perchè era un tecnico che ti aiutava a crescere  offrendo suggerimenti semplici, ma sempre molto azzeccati e pertinenti.
Infine, anche se non figura tra allenatori e dirigenti, ho un pensiero da dedicare al favoloso Emilio Ibba, il nostro “masseur”, cusrode di mille segreti di spogliatoio e uomo con  grandissima generosità d’animo”.

Avversari di alto livello ne avrai avuti tantissimi: ma se ne devi citare uno solo?
“Hai ragione, sono stati centinaio però se ne devo ricordare uno solo, cosa peraltro impossibile, scelgo Dalla Vecchia, ala di Verona, giocatore completissimo sotto tutti i punti vista. Molto pericoloso in attacco sulle due dimensioni, intenso in difesa, sempre presente a rimbalzo e con un carattere da leader”.

In chiusura: qualche aneddoto irripetibile?
“Beh, da junior ho visto Mauro Buzzi Reschini giocare un primo tempo con un paio di scarpe normali da passeggio perchè Mauro, incautamente, aveva dimenticato la scarpe da gioco a casa. Buzzi Reschini accortosi della grave dimenticanza chiede a coach Brumana il permesso di accomodarsi in panchina e fare da spettatore. Brunetto risponde picche. Prima ordina a Mauro di fare riscaldamento pre-partita, poi tra le nostre risate e ferocissime prese in giro, lo manda come sempre in quintetto base. Mauro obbedisce e dopo il salto a due come al solito ne infila 40. All’intervallo però Buzzi ha i piedi doloranti e gonfi come due angurie e a quel punto Brunetto, in un pietoso flash, lo manda in panchina definitivamente. Credo che Buzzi abbia imparato per sempre quella severa, ma per certi versi divertente lezione”.

Altro?
“Di solito in campo ero abbastanza sotto controllo, direi tranquillo. Tuttavia, una  volta a Cremona, esasperato dai continui insulti ricevuti nell’arco della gara, durante l’esecuzione di un tiro libero ho commesso l’errore di mostrare il dito medio al pubblico. Da quel momento in avanti è scoppiato il finimondo con i tifosi avversari che, accennando un’invasione, mi volevano linciare e fare giustizia sommaria. Al termine della gara siamo stati assediati in spogliatoio per un paio d’ore, usciti scortati dalla polizia e me la sono vista davvero brutta”.

Romano Pagani: qual è la tua versione “family man”?
“Sono sposato con Sandra, responsabile dell’amministrazione in Robur e ho due figli. Simone, classe 2002, studente al quinto anno di informatica gioca a pallacanestro nella nostra squadra di CSilver. Matteo invece è nato nel 2004, frequenta il 4° anno al Liceo Ferraris, ha giocato a basket, naturalmente in Robur, fino all’Under 14. Poi ha smesso col basket e adesso nuota. Entrambi bravi ragazzi sereni, educati, amanti dello sport, ma con tanti altri interessi e soprattutto seri. Di questi tempi, non è poco”.
Ma, Romano, detto tra noi: potevamo avere dubbi sulla serietà dei tuoi “bimbi”?

Massimo Turconi

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