Se Claudio Milanese scegliesse un film adeguato a descrivere la sua bellissima vicenda sportiva, quest’ultimo potrebbe essere: “Un’ottima annata”, best-seller del famoso regista Ridley Scott.
Se invece Claudio dovesse interpretare una canzone, e potrebbe anche farlo dal momento che ha un voce calda e profonda, per descrivere quel magico periodo trascorso con i “ragazzi del 1962”, ho l’impressione che la scelta ricadrebbe sicuramente su “I migliori anni della nostra vita”, uno standard pluricelebrato di Renato Zero.  

Insomma: l’uno per il tutto, il grande cerchio sul quale, geometricamente, è possibile costruire una quadratura perfetta: la stagione 1976-1977. Quella dell’ormai famoso “scudettino” conquistato nella categoria Allievi. Ma, di più, il pilastro sul quale è stato possibile costruire un sentimento indistruttibile come quello dell’amicizia che ancora oggi, a distanza di oltre quarant’anni, lega tutti i protagonisti di quella grande e bella vittoria ottenuta grazie ad un impasto virtuoso di lezioni di basket e di vita. Lezioni che Claudio Milanese, notissimo imprenditore, ha fatto sue regalandole con discrezione, riservatezza e senza clamore ai tantissimi che nel mondo dello sport gli devono (o dovrebbero…) un semplice, ma sentito: “Grazie, Claudio!”.

“Scelte cinematografiche e musicali sulle quali sono d’accordo perchè – commenta con un sorriso Milanese -, nella mia breve, ma devo dire intensissima parentesi cestistica, ho avuto la fortuna e l’assoluto privilegio di poter vivere la straordinarietà. Straordinarie le persone che ne hanno fatte parte. Straordinaria la concatenazione di eventi che ci hanno portato a raggiungere quei risultati. Straordinari pure loro. Straordinari i momenti che abbiamo vissuto. Straordinario il prima che ci ha messo insieme. E, infine, ancor più straordinario il “dopo”, ovvero il presente che ci consente di “contarla su”, con la stessa coesione, forza e simpatia di allora”.

Hai citato il “prima che vi ha messo insieme”: inizia da lì, please.
“Il mio “prima” – ricorda Claudio -, è rappresentato da una lettera su carta intestata Ignis Pallacanestro Varese con la quale il club mi invita a partecipare ad una leva cestistica presso la palestra dell’istituto “Daverio”. In quella palestra quel sabato pomeriggio si affollano almeno un centinaio di ragazzini tutti animati da un solo grandissimo sogno: entrare nelle squadre giovanili della mitica Ignis Varese. Per me il sogno appare irraggiungibile perché, ad una prima occhiata, mi sembra che almeno la metà dei presenti abbiano qualità superiori alle mie”.

Invece…
“Invece, al termine di una giornata che ricordo intrisa di emozioni e stress gli allenatori dell’Ignis – Brumana, Campiglio e Colombo – mi dicono di ripresentarmi per un secondo provino. Qualche giorno dopo la pattuglia dei ragazzi si è ridotta di circa la metà dei ragazzi e, anche qui, stessa trafila: allenamento e “sentenza” immediata: i tecnici mi prendono che per un terzo provino al quale ne seguirà un quarto. Il numero dei partecipanti intanto è via via calato e al termine di una selezione durissima, ecco l’annuncio tanto atteso: farò ufficialmente parte della “famiglia Ignis” e la gioia provata in quel momento non saprei nemmeno descriverla tanto è grande. Con me ci sono una decina di altri ragazzi che andranno a formare un gruppo inizialmente affidato a coach Manuel Campiglio”.

Perché ti scelgono? Che tipo di giocatore sei?
“Sono un “mediano” alla Ligabue: di quelli che giocano generosi,  sempre lì, con grande energia e senza risparmio. Dal punto di vista tecnico invece sono un po’ nel limbo: so fare tante cose bene, ma nessuna benissimo. Comunque, a 13 anni essendo già “fisicato” (ma poi disgraziatamente non sono più cresciuto in altezza) faccio tutto il percorso inverso. Parto vicino a canestro e anno dopo anno mi allontano di un ruolo fino ad occupare lo spot di playmaker. Arrivo, per dirla in modo un po’ ridondante, ad essere un regista “alla Aldo Ossola”: grande attenzione verso i compagni e, quando serve, provo ad offrire qualche prestazione decente anche in attacco”. 

Torniamo al post-selezione, ovvero al momento in cui comincia la vostra bellissima avventura.
“Esatto: Manuel ci segue per i primi mesi, ma in occasione dei Giochi della Gioventù siamo già nelle mani di Carlo Colombo, il coach che a mio giudizio, ma il parere credo sia ampiamente condiviso, sarà il vero, direi l’assoluto protagonista del nostro miracolo. Carlo, in perfetto e raro equilibrio tra fondamentali di pallacanestro e determinati insegnamenti di vita, diventa una sorta di eccellente direttore d’orchestra. Colombo è bravissimo nel mettere insieme i vari “strumenti” e nel giro di pochi mesi riesce a dare forma e mettere in musica tutto quello che possiamo esprimere: ideali, ambizioni, forza, costanza, tenacia, talento, carattere e chi più ne ha, più ne metta. Tra noi e Carlo si instaura una relazione ricca di armonia dentro e fuori dal campo. Un’armonia naturale che, non a caso, ci permette di accogliere e di inserire rapidamente tutti gli “orchestrali” che man mano arrivano a regalare ulteriori qualità tecniche, fisiche e mentali al nostro gruppo. Comunque sia, il primo anno con Carlo corre via alla grande e praticamente senza intoppi e senza troppa fatica ci ritroviamo alle Finali Nazionali Ragazzi, ma la prima esecuzione pubblica, se così posso definirla, non ottiene però l’effetto sperato”.

In che senso?
“Nel senso che arriviamo a Porto San Giorgio, sede delle finali, con la nomea di grandi favoriti, ma nel momento più bello, ovvero nella semifinale contro la GBC Lazio Roma “stecchiamo” un po’ tutti. Io, però, un po’ più dei miei compagni perchè, con la squadra già in seria difficoltà a causa dei falli in serie fischiati a Diego Tosarini, non faccio pienamente il mio dovere a causa di un approccio alla gara mentalmente sbagliato e superficiale. Quella mia pessima partita, per la quale avrò chiesto scusa ai miei compagni almeno dieci milioni di volte, rappresenta uno di quegli episodi classicamente ambivalenti che capitano nel corso della vita. Da un lato mi ha segnato negativamente e, ne avessi avuto l’opportunità, l’avrei volentieri cancellato. Dall’altro lato però lo sconforto e il disagio vissuti in quei momenti mi hanno messo precocemente con le spalle al muro infliggendomi un paio di grandissime lezioni. Mai dare nulla per scontato. Mai sottovalutare chi ti sta di fronte. Due lezioni che ho portato con me dal parquet alla vita reale e ancora oggi costituiscono i capisaldi nella mia attività lavorativa”.

La stagione successiva, 1976-1977, è quella della “sinfonia perfetta”.
“Ho il ricordo di un anno caratterizzato da grandissimi sacrifici perchè oltre al campionato Allievi gran parte di noi giocano anche nella squadra Cadetti e, come se non bastasse, la società ci iscrive anche al campionato di Promozione, un torneo di grande durezza fisica, specialmente per un gruppo di “sbarbati” come il nostro. Tuttavia, pian piano, tra uno sberlone e l’altro, tra una spallata e una gomitata, incominciamo ad imparare quei trucchi del mestiere che, poi, si riveleranno indispensabili per affrontare con un pizzico di esperienza e freddezza in più le partite che contano dei campionati giovanili. Tra queste vale la pena di citare la finale interzonale disputata a Torino giocata contro la Cinzano Milano. Quella gara giocata due mesi prima delle finali nazionali e vinta 69-66 al termine di un match di incredibile intensità e pathos, è stata giustamente considerata la vera finalissima scudetto dell’anno. Vincere il derby contro Milano in quel modo, soffrendo e lottando tutti insieme, ci dà una carica pazzesca tant’è vero che alle finali nazionali di Pescara, memori degli errori commessi l’anno prima, non sbagliamo un colpo. Così il 25 aprile 1977, data che analizzata con la consapevolezza di oggi mi sembra decisamente simbolica, nella finale tricolore ritroviamo la GBC Lazio, ma questa volta ai romani non lasciamo nemmeno le briciole e li spazziamo via dal campo con un perentorio +22. Dopo tre finali nazionali in crescendo arriviamo, finalmente, sul tetto delle giovanili della pallacanestro tricolore: siamo Campioni d’Italia”.

Dalle tue parole sale a galla il valore “sacro”, per certi versi irrinunciabile, della sconfitta.
“Per come la vedo io la sconfitta, non solo quella sportiva, rappresenta una pietra angolare nella vita di una persona. Perdere una gara importante, o semplicemente perdere qualcosa di decisivo, fa sempre male. E’ sempre doloroso. E’ sempre molto deprimente. Ma è proprio nel momento in cui tocchi l’abisso della delusione che sei chiamato a reagire, a tirare fuori il meglio di te stesso. A me, a noi, nelle finali nazionali di Pescara succede tutto questo. Dopo aver assaggiato, a Porto San Giorgio, tutto l’amaro del mondo ci diciamo l’un l’altro: “Ragazzi, mai più una cosa del genere!” e in tutto il percorso pescarese giochiamo con un livello di concentrazione elevatissimo. In particolare credo di aver giocato una serie di partite di grande sostanza perché, come ti ho già detto, ho qualcosa da farmi perdonare da parte dei miei compagni”.  

Scudetto cucito sul petto, poi, cosa succede?
“Succede che, di fatto, proprio in quel momento si chiude la mia “brillantissima” carriera da giocatore. Diciamo che – ironizza su sé stesso Milanese -, ho preferito ritirarmi da vincente, come fanno solo i grandi giocatori. Battute a parte, l’anno dopo aver conquistato il titolo Allievi mi ritrovo nel gruppo Cadetti assemblato anche con i nati nel ’61 e in quella squadra, molto forte e completa in ogni ruolo, sono un po’ chiuso da fior di giocatori e in confronto a loro faccio la figura del “cagnaccio”. Non trovando spazio scelgo di giocare nel Mina Induno e di dedicare più tempo allo studio. Così, anche se a malincuore, lascio un gruppo di ragazzi assolutamente fantastici con cui, per fortuna, il rapporto non si mai interrotto. Anzi, sorprendentemente negli anni è addirittura migliorato, consolidandosi in un’amicizia matura e fortemente voluta”.

La tua vita successiva nel mondo dello sport è stata clamorosa: presidente del Varese Calcio e sponsor di grande importanza in numerose altre discipline sportive, basket compreso, ovviamente…
“Perdonami, ma non gradisco parlare delle mie attività a favore del mondo dello sport. Pertanto, mi limiterò ad un paio di considerazioni. Avendo ricevuto tanto, tantissimo dallo sport in termini di disciplina morale, rapporti personali, insegnamenti, emozioni, gioie e momenti di indescrivibile felicità ho solo ritenuto giusto restituire qualcosa. Senza farla troppo lunga e senza prendermi troppi meriti, che peraltro non ho”.

Il discorso, se approfondito, ci porterebbe abbastanza lontano. Anzi, “Mi” porterebbe lontano. Mi troverei a descrivere un presidente che, giovanissimo, solo 26 anni, si muoveva in un mare di “squali” come quello del calcio con equilibrio, intelligenza e ragionevolezza. Qualità non sempre frequenti nell’universo pallonaro che, spesso, si muove su piani chiamati emotività e “pancia”. Mi troverei a descrivere Claudio che per 13 anni, mica un giorno, ha amministrato la sua carica in maniera limpida e leale. Insomma: bene.

Ma il presente di Milanese oggi è un altro e a molto che fare con il suo spirito altruistico.
“Mi piace molto il “Progetto Solbiatese” attraverso il quale, con un gruppo di amici e appassionati, vorremmo rilanciare il “Felice Chinetti”, impianto storico e stadio importante per la nostra provincia, e la Solbiatese Calcio, società che da sempre si distingue per l’attenzione che dedica al movimento giovanile. Sono fermamente convinto, e del resto ne ho la prova provata, che i giovani, se hanno la possibilità di praticare sport in maniera sana e pulita, poi diventano persone migliori sotto tutti i punti di vista. Questa mi sembra già una ragione sufficiente per dare una mano. Quindi – conclude sereno Claudio -, perché non farlo?”.

Massimo Turconi

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