L’istruzione ai tempi del Covid è uno dei tanti problemi che il governo è chiamato ad affrontare, con la consapevolezza, da un lato, della complessità della situazione in termini di protocolli di prevenzione e, dall’altro, dell’importanza di garantire un percorso educativo efficace per una generazione che, in caso contrario, rischia di vedere compromesso il proprio futuro. Dopo i quattro mesi di didattica a distanza che hanno portato alla conclusione dello scorso anno scolastico, il tentativo di normalità di inizio settembre ha avuto vita breve, solo fino al 26 di ottobre, quando gli studenti a partire dalla seconda media sono tornati a far lezione davanti allo schermo del PC. Una sfida non da poco per ragazzi e professori, che ancora una volta hanno dovuto adattarsi a una modalità di insegnamento inusuale, con tutte le limitazioni che la distanza comporta.
Con il passaggio della Lombardia da zona rossa ad arancione, da questo lunedì tutta la scuola secondaria di primo grado è tornata tra i banchi. La professoressa Marika Carlino, che insegna lettere presso l’Istituto Comprensivo Ponti di Gallarate, ha condiviso il suo punto di vista sulla situazione, raccontando gli sviluppi e le difficoltà di questi ultimi mesi, tra classi in quarantena, spiegazioni su Google Meet e speranze di un definitivo ritorno alla scuola come la conoscevamo prima.

Com’è stato l’inizio dell’anno scolastico? 
“Dal punto di vista personale è stato positivo perché ero soddisfatta di essere stata chiamata subito, così come di tornare in una scuola in cui avevo già insegnato; d’altro lato, c’era inizialmente qualche preoccupazione in termini di prevenzione della pandemia, ma la scuola aveva predisposto protocolli rigorosi, quindi non avevo paura di essere contagiata o di vivere in una situazione sanitaria precaria. Posso anche dire che da parte di alunni e insegnanti c’era molta trepidazione e gioia per tornare in una classe fisica, e non solo virtuale, e quando ho varcato il cancello il primo giorno ero veramente felice perché tornare a fare il proprio lavoro in presenza riempie il cuore”. 

Si sono verificati casi di positività nelle tue classi?
“Nelle prime settimane c’è stato un caso all’interno di una mia classe, ma il ragazzo aveva contratto il virus al di fuori dell’ambiente scolastico e grazie alle rigide norme in atto nessuno dei suoi compagni è stato a sua volta contagiato. Appena noi insegnanti abbiamo ricevuto la segnalazione, abbiamo dovuto comunicare se avevamo seguito tutte le regole vigenti, ovvero usare l’igienizzante, indossare la mascherina, provvedere a un continuo ricambio dell’aria, così da avere la certezza di aver fatto il possibile per limitare i contagi. La classe è stata messa subito in quarantena e dal giorno successivo è stata attivata la didattica a distanza. In una situazione del genere, i ragazzi hanno la possibilità, se vogliono, di fare il tampone e rientrare a scuola una volta ricevuto l’esito negativo, altrimenti occorre rispettare obbligatoriamente i 14 giorni di quarantena prima di tornare tra i banchi. Nella mia classe lo hanno fatto tutti ed erano negativi. In attesa dei risultati, però, ho avuto questa intera classe in quarantena. Con l’altra mia classe, invece, sono capitati casi di ragazzi non positivi ma che avevano avuto con contatti con positivi, quindi in quel caso la quarantena scatta solo per i diretti interessati, che si collegano da casa per fare lezione, mentre i compagni sono a scuola”.

Poi, però, è iniziato un nuovo lockdown. Qual è l’aspetto più complicato della didattica a distanza?
“Ce ne sono diversi, ma secondo me il più gravoso è la gestione delle comunicazioni, perché ogni giorno si passa moltissimo tempo a rispondere alle e-mail dei colleghi, ai commenti dei ragazzi su Google Classroom, alle telefonate dei genitori, mentre di persona queste interazioni sarebbero molto più semplici. Un altro problema è recuperare gli alunni che in un certo senso si disperdono. Spesso, con la DAD, i ragazzi che vengono da contesti più fragili o che non hanno molta predisposizione per lo studio non partecipano attivamente e bisogna convincerli a collegarsi alle lezioni. Poi, pur vedendo i nomi online, se la webcam e il microfono sono spenti non si ha mai la matematica certezza che gli studenti siano fisicamente davanti al computer. Ma nella mia esperienza personale si è trattato solamente di qualche caso isolato”.

In generale, quindi, la risposta dei ragazzi è stata positiva? 
“Sì, devo dire che tra l’anno scorso e quest’anno, la maggior parte dei miei studenti ha affrontato il periodo della DAD con serietà. Questo perché si sono resi perfettamente conto dell’eccezionalità della situazione che stiamo vivendo e di quanto la didattica in presenza abbia decisamente più valore. Il numero di coloro che latitano a distanza è davvero ridotto e sono soltanto i più svogliati che ne approfittano per partecipare in modo selettivo alle lezioni”.

Come vi siete organizzati per il ritorno delle seconde e terze medie in aula? Com’era l’umore dei ragazzi?
“Continuiamo a seguire gli stessi protocolli già stabiliti dal DPCM del 4 novembre. Gli studenti arrivano con ingressi scaglionati, ogni classe ha un proprio percorso da seguire per non incrociare le altre classi, viene misurata la temperatura, all’ingresso di ogni ambiente, come aule, bagni, palestra, segreteria, sono presenti erogatori di gel igienizzante, e la scuola ogni mese consegna circa trenta mascherine chirurgiche a ciascuno. Al momento di uscire, i ragazzi seguono lo stesso percorso dell’andata, studiato a seconda della specifica planimetria della scuola, in modo da evitare assembramenti. Nel nostro caso, ora il rischio è ulteriormente ridotto perché il liceo adiacente alle medie è chiuso. Quanto all’umore degli studenti, innanzitutto sono stati contenti di rivedersi di persona, perché sanno bene che al di fuori della scuola non possono trovarsi a giocare insieme; inoltre, dal punto di vista didattico sono consapevoli che, pur con tutte le attuali restrizioni, la didattica in presenza è molto più valida. Sebbene noi professori facciamo il possibile per rendere le lezioni virtuali quanto più simili a quelle in aula, l’istruzione a distanza, senza il contatto umano, depaupera il percorso educativo”.

Da insegnante, come valuti le misure prese per il mondo della scuola? 
“Per quanto riguarda le misure per contenere la pandemia, sono state adottate in tutte le scuole in modo molto rigoroso, quindi da quel punto di vista sono contenta. Dall’altra parte, secondo me, in questi mesi il Ministero dell’Istruzione e più in generale il governo si sono persi in chiacchiere inutili, perché da febbraio avrebbero avuto tempo a sufficienza per dare una maggiore forza propulsiva alla scuola, ma si sono occupati di questioni del tutto secondarie come l’acquisto di banchi monoposto a rotelle. Sarebbe stato importante, invece, risolvere i problemi che le scuole si trascinano da sempre, ad esempio evitare che si formassero classi sovraffollate (come è poi successo a molte nuove prime di quest’anno), dare più certezze agli insegnanti precari, soprattutto per quanto riguarda i concorsi, e sistemare i trasporti pubblici. Dopotutto, se in classe si adottano misure rigorose ma su treni e pullman è impossibile rispettare il distanziamento, si elimina il potenziale contagio da una parte ma lo si aumenta dall’altra. Penso che se a monte avessero affrontato questa problematica, aggiungendo corse o coinvolgendo società di trasporto privato, probabilmente si sarebbe evitata la didattica a distanza in questo periodo. Ora è vero che le medie sono tornate a scuola, ma le superiori e l’università sono ancora a casa. In questo modo, si rischia di perdere un’intera generazione di studenti, che uscirà zoppicante dal proprio percorso di formazione, con competenze non pienamente acquisite”. 

Silvia Alabardi

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