Sono giorni di tranquillità per Andrea Conti, general manager della Pallacanestro Varese. Le due vittorie consecutive – in casa contro Roma e soprattutto quella strappata in trasferta a Trento – hanno restituito serenità a tutto il clan varesino che, anche involontariamente, sentiva tremare il terreno sotto i piedi.
Questi sono quindi giorni di sorrisi ritrovati e, complice la pausa per gli impegni della Nazionale, con il brillante dirigente biancorosso è possibile sfogliare l’album del passato puntando i riflettori su uno dei gruppi giovanili più interessanti nella pur ricca storia del club bosino: quello della classe “allargata” ’73-’74-’75 e ’76. Annate che hanno prodotto diversi giocatori di alto livello e una corposa pattuglia di ragazzi che nelle minors hanno trovato spazio, opportunità di gioco e tante occasioni per mettere in mostra le loro qualità.
“Mi tuffo volentieri nel passato perché – ricorda con sorriso Andrea Conti -, come tanti, come tutti probabilmente, continuo a pensare che la pallacanestro delle categorie giovanili sia la più bella, quella che si gioca con maggior passione, quella che, in definitiva, regala emozioni che sotto il profilo umano restano per tutta la vita. Ovviamente è stato così anche per me dal momento che negli anni trascorsi da Under a Varese ho conosciuto ragazzi che, tuttora, sono i miei amici “per la vita””.

Come inizia il tuo racconto?
“Tutto comincia a quattordici anni quando, a seguito della richiesta ufficiale da parte della Pallacanestro Varese, lascio il CMB Rho, mia alma mater, per iniziare la mia carriera nelle giovanili varesine. Alloggio al Convitto De Filippi insieme ad altri ragazzi e fin dal primo giorno entro in quella che sarà un’immersione totale nel basket: scuola, studio e compiti nel pomeriggio, allenamento, riposo e stop. Zero tempo per pensare ad altre cose in un percorso di vita in cui abbiamo imparato il rispetto delle regole e l’autodisciplina, il sacro valore dell’organizzazione e l’accettazione di un sano nonnismo che, in buona sostanza, si può declinare come rispetto per le gerarchie. Elementi che, lo capiremo un po’ più avanti, saranno fondamentali per gestire al meglio la vita di tutti i giorni. L’impegno, come dicevo, è massiccio anche perché il nostro gruppo ’74, numericamente adeguato e fisicamente ben attrezzato, è quello a cui lo staff tecnico attinge per aiutare i gruppi ’72 e ’73 che, in queste voci, sono leggermente carenti. Così, il doppio allenamento quotidiano, e la doppia, a volte la tripla partita nel corso della settimana diventano la norma. Però, devo anche aggiungere che con l’andar del tempo abbiamo imparato un po’ tutti dosare lo sforzo e capire come distribuire meglio le energie”.

Tanti campionati in varie categorie con quali risultati?
“Nessun risultato di altissimo livello, se con questo intendiamo gli scudetti giovanili. Con le squadre Cadetti e Juniores siamo sempre presenti alle finali nazionali e in alcune occasioni, vedi finali nazionali Cadetti a Treviso o juniores a Capo d’Orlando arriviamo alle semifinali. C’è mancato il colpo grosso, ma devi anche considerare che in quel periodo la concorrenza era incredibile e almeno una decina di società – Virtus e Fortitudo,  Treviso, Torino, Desio, Caserta, Milano, Reggio Emilia, Cantù, Livorno, Brescia, Pesaro, Pavia – ogni anno partivano con le carte in regola per occupare il gradino più alto del podio. Sto parlando di una stagione cestistica molto prolifica che, non a caso, ha prodotto buona parte dei giocatori protagonisti della vittoria della medaglia d’argento alle Olimpiadi di Atene 2004. 
E’ il momento dei Marconato, Scarone, Maggioni, Saccardo, Piccirillo, Conti, Degli Agosti, Gigena, Basile, Lamma, Barbieri, Tonolli, Damiao, Galanda, Sciarabba, Sabbia, Aimaretti, Chiacig, Ancillotto, Gros, Sari, Minessi, Muzio che cito un po’ alla rinfusa e tanti li ho dimenticati. E’ il momento in cui, passati sani e salvi dal qualificatissimo e infernale girone lombardo, bisognava poi sudare altre ventuno camicie per passare la fase interzonale e per approdare alle finali nazionali. Insomma, in quegli anni per arrivare fino in fondo dovevi avere una squadra veramente super”.

E voi, come eravate?
“Buoni, secondo me. Ma alla fine non così completi in termini di rotazioni per arrivare a giocarcela alla pari con squadroni che magari hanno meno talento di noi, ma più “carne” da utilizzare nel corso di un torneo fisicamente massacrante come le finali nazionali”.

Il talento è sempre un bell’argomento, mi pare.
“Beh, noi in quegli anni avevamo Andrea Meneghin, uno che, non esagero, è stato di gran lunga il miglior giocatore della sua generazione. Almeno tre spanne davanti a tutti. Però, discutendo di talento puro, ti garantisco che anche Maurizio Giadini non scherzava. “Giado”, oltre ad un fisico esplosivo come pochi ne ho visti, aveva due mani d’oro, grande idee per passare la palla, piedi e mani rapidissime per difendere e tante altre belle doti. Forse Giadini, per ragioni che mi sfuggono, ha avuto una carriera inferiore alle sue potenzialità ma, ripeto, aveva classe da vendere. Poi, vogliamo parlare di Andrea Bottelli? Altro mio compagno dotato di classe pari solo alla sua eleganza sul campo. “Botte”, grande intelligenza cestistica, sapeva fare tutto con la facilità e la semplicità che caratterizza quelli capaci di giocare. Vogliamo parlare di Mariolino Di Sabato? Un mini-play in possesso però di una maxi visione e comprensione del gioco. “Merio” raramente sbagliava una scelta e non per niente per tanti anni è stato uno dei registi top delle serie minori. Tuttavia, in realtà poteri continuare con i nomi di tanti altri compagni di squadra che successivamente si sono comportati molto bene per i livelli in cui hanno giocato. Mi vengono in mente Luca Merli, Giò Pastori,  Silvano Zecchetti, Andrea Oldrini, Simone Girardin, Mitch Zanatta, Cristiano Lucarelli e, anche qui chissà quanti ne ho tralasciati”.

Da dirigente, e anche importante ex-allenatore di settore giovanile, che cosa hai imparato lungo il tuo percorso?
“Ho imparato che alla base dei successi prodotti dal settore giovanile sono indispensabili alcuni elementi fondamentali e determinanti: idee, organizzazione, competenze manageriali e tecniche, entusiasmo, fiducia e tanta pazienza. Ecco, in quella Pallacanestro Varese grazie a personaggi di grandissima caratura come Toto Bugheroni e Marino Zanatta avevamo tutto questo. Toto & Marino armati di ammirevole tenacia e mettendo al posto giusto dirigenti capaci, allenatori e preparatori atletici di valore indiscutibile e strutture adeguate, negli anni hanno dato vita ad un gioiello tecnico-organizzativo con pochi paragoni in Italia che con la costruzione del Campus ha raggiunto la perfezione, uno zenith invidiato in tutta Europa. Poi, la legge Bosman, il professionismo e tanti altri fattore non esattamente positivi hanno man mano fatto perdere importanza ai settori giovanili, ma le conseguenze di alcune scelte le stiamo pagando a carissimo prezzo anche oggi”.

Da tutto quel lavoro è scaturito un diamante purissimo: Andrea Meneghin.
“Andrea merita un solo aggettivo: fenomenale. Uno che a 14 anni già ce la “spiegava”. Tutti noi suoi compagni sapevamo che sarebbe arrivato in cima e la domanda che ci facevamo non era “se”, ma “quando”. Ebbene, anche in questo Andrea è stato incredibile arrivando al top addirittura in anticipo sui tempi previsti. Personalmente ho sempre fatto il tifo per il Menego e sono davvero contento che ce l’abbia fatta anche perché siamo molto legati e amici veri ormai da trent’anni”.

Chi altro ti è “rimasto addosso”?
“Marco Ceria, altro amico a 24 carati, è un ragazzo di Biella che per un paio d’anni è stato mio compagno di camera al De Filippi. Marco poi è tornato a casa sua, ma siamo sempre rimasti in contatto e non a caso stato mio testimone di nozze”.   

Chiuderei la nostra chiacchierata con una domanda “ispida”: come mai non ti abbiamo mai visto ad alto livello anche in A1? Eppure, se parliamo di talento, pure tu non eri messo malaccio.
“Ti rispondo in questo modo: ho avuto le mie occasioni, e non è proprio il caso di fare nomi e cognomi, ma nel momento che mi sembrava fosse quello ideale non è mai passato il treno giusto. O forse è stata colpa mia che non ho avuto l’ostinazione necessaria per continuare a battere il chiodo della serie A1. Però, nel quintetto della Nazionale Under 22 con Basile, Meneghin, Ancillotto e Galanda c’ero anch’io e in quel momento posso dirti che giocavo al livello dei migliori. Evidentemente doveva andare così”.

Qualche rammarico strisciante?
“No, nessun rimpianto anche perché la pallacanestro giocata mi ha dato comunque tantissimo. Poi, a conti fatti, a Cremona, ho trovato la mia completa realizzazione tecnica, ma soprattutto umana. Diciamo che nell’intrigante gioco delle “sliding doors” a Cremona al momento giusto ho imboccato il “gate” giusto e oggi  ho una bellissima famiglia che – conclude sereno Andrea – è sempre meglio che aver avuto una brillante carriera cestistica”.       

Massimo Turconi

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