Se la vita di Michele Zanatta fosse un film sarebbe certamente “Cuori ribelli”.
Se fosse un libro sarebbe certamente “Cavalli selvaggi” di Cormack Mc Carthy.
Se, infine, fosse un brano musicale sarebbe certamente “Against the wind”, celeberrima canzone di Bob Seger & the Silver Bullet Band. 
In ogni caso, tutti e tre gli elementi artistici citati concorrono a definire la personalità di Michele, classe 1975, ex giovanili Pallacanestro Varese e, come tutti certamente sapranno, figlio del grande Marino, uno dei campioni più rappresentativi del basket italiano e, non di meno, uno degli uomini più importanti nel panorama generale del basket italiano. La personalità che definisce un uomo esuberante, con forte carattere, dotato di spiccata intelligenza, ma anche refrattario a regole e schemi precostituiti. 

Film, libro e canzone, che non ho scelto a caso, descrivono al meglio, o sembrano poterlo fare, le vicende della vita di Michelino e lo inseriscono nel cerchio dei personaggi cresciuti avendo dentro, nel DNA, il mito della frontiera; la logica degli spazi sconfinati e delle decisioni ultimative. Quelle sempre difficile da prendere. Qualche volta, per sua stessa onesta ammissione, Zanatta jr. davanti a un bivio ha imboccato la strada più complicata. Quella con meno “resa”. Ma oggi Michele può orgogliosamente sussurrare: “Se ho sbagliato, e qualche volta ho oggettivamente sbagliato, l’ho fatto di testa mia. Senza tirare in mezzo nessuno. E non è poco, credo”.

Questa frase dice quasi tutto di un uomo “kid-style, giovanilissimo a dispetto dei suoi 46 anni.
“Tutto merito della pallacanestro che – dice con un mezzo sorriso Zanatta – mantiene giovani nella testa e nel fisico”.

La pallacanestro che, immagino, per te sia come respirare.
“Respirare, quindi funzione vitale, quindi vivere, penso sia il verbo più adeguato – risponde subito Mitch -. In effetti, anche sforzandomi, non riesco a pensare ad un giorno della mia vita in cui la pallacanestro non sia stata presente. Anche solo di sfuggita. Anche solo come pensiero volatile. Fin da quando ho cominciato a capire qualcosa, il basket c’è sempre stato. Sempre presente, in tantissime forme: visto, parlato, raccontato, discusso, letto, guardato attraverso le fotografie, giocato da papà, dai suoi amici-compagni di squadra e poi anche da me”.

Com’è stato crescere avendo davanti i più grandi miti della pallacanestro italiana?
“Sai, ho pensato spesso a ‘sta cosa e – osserva Mitch -, credo sia una sensazione difficile da spiegare e solo negli ultimi anni ho capito e realizzato di aver vissuto un’infanzia e un’adolescenza assolutamente meravigliose. Sono cresciuto circondato da un clima sereno e immerso, totalmente immerso nell’atmosfera divertente dello spogliatoio della “grande Varese”. Di quel periodo, se parliamo di eventi agonistici ho solo vaghi ricordi, ma ho in testa un elemento importante e incancellabile. Ho in testa un “suono”. Quello forte, cristallino, pieno di gioia e voglia di vivere espresso dalle risate, dai discorsi ad alta voce, dalle battute, dalla prese in giro di Marino, Dino Meneghin, Charlie Yelverton, Aldo Ossola, Bob Morse e da tutti i campioni che frequentavano casa nostra o che papà incontrava in giro per Varese”.

Ricordi vaghi? Citamene uno, please.
“Le prime ore della domenica pomeriggio quando papà, quasi volesse farmi un regalo mi diceva: “Michele, preparati! Ti porto alla partita”. Ma io in realtà ero già pronto e “in gas” già dalla domenica mattina e non aspettavo altro che quel momento-invito. In zero secondi volavo in macchina e nel tragitto da casa al palazzetto cercavo di farmi spiegare da Marino i “temi” della partita. Poi, una volta arrivati a Masnago, mi sedevo al mio posto, cercavo di memorizzare le giocate più belle del primo tempo aspettando con impazienza la fine del primo tempo. Sulla prima sirena correvo sul parquet e cercavo di ripetere quello che avevo “salvato in memoria” e quando ci riuscivo sentivo anche qualche applauso da parte del pubblico. Sensazioni incredibili per un bambino”. 

Altro?
“Ancora adesso ricordo distintamente il profumo dello spogliatoio. Quel misto di odori, tutti forti, alcuni pungenti, ma che messi insieme formavano quella miscela straordinaria e inconfondibile. Un aroma che solo quelli che hanno giocato sanno apprezzare perché, gli altri, in maniera “tranchant” la definiscono “puzza di spogliatoio”. E, forse, non potrei nemmeno dargli torto”.

Altro?
“Io che presenzio agli allenamenti di papà, il quale alla fine degli allenamenti si diverte a fare due tiri con me e finge di impegnarsi nell’uno contro uno. Poi, io che grondo di sudore e insieme a Marino vado a fare la doccia insieme a tutti i suoi meravigliosi compagni. Tuttavia, solo più avanti ho realizzato di essere cresciuto in un ambiente “speciale”, vivendo tutta la pallacanestro possibile e immaginabile in una posizione da “top class”. Rivedo i grandi personaggi che hanno reso più bella e interessante la mia vita: uno per tutti, Toto Bulgheroni che, per me, è stato come un secondo padre o, se vuoi, il classico “Zio buono”, simpatico, affettuoso e sempre presente. Chiaramente insieme a Toto potrei citarne tantissimi altri tra giocatori e amici che, nelle cene post-partita al Ristorante Montello, rendevano indimenticabili le mie serate domenicali”.

Michele Zanatta e Andrea Meneghin da bambini

La serie “Mitch” parte dalla prima puntata: le giovanili.
“Giovanili per me significano una cosa sola: una decina d’anni passati con mio fratello di sangue Andrea Meneghin perché noi siamo cresciuti insieme. E, attenzione, il termine sangue non è usato a caso perché Andrea un giorno, durante un allenamento in via Rainoldi, inciampa e cadendo in maniera scomposta si sfracella con la faccia contro un tubo della panchina. Oltre a piangere per il dolore, il Menego perde sangue come un vitellino appena sgozzato. Dopo le lunghe cure del caso, quel cagasotto di Andrea lascia la palestra urlando: ”Basta, io non gioco più a questo sport maledetto”. Detto, fatto. Per quasi un mese Andrea non si fa più vedere e io sono ovviamente preoccupato finchè, le mie reiterate e continue insistenze producono effetti positivi e il Menego torna a giocare. Insomma, sia chiaro: se per anni i tifosi di Varese e della Nazionale hanno applaudito Andrea, il merito è tutto mio. Solo mio che tempestandolo di telefonate e inviti l’ho convinto a tornare in palestra”.

Altro?
“Io e Andrea, fin da piccoli, siamo “fuori di testa” per le scarpe da basket e facciamo impazzire tutti i compagni quando ci presentiamo alla Rainoldi calzando All Star serie speciale: quelle di Andrea hanno ricamato il robottino di Guerre Stellari, mentre sulle mie c’è Snoopy. Però, a parte queste sciocchezze, gli anni di settore giovanile in squadre con Meneghin sono stati solo un divertentissimo rituale di passaggio verso la serie A visto che nei nostri discorsi abbiamo sempre immaginato e sognato che, prima o poi, avremmo preso il posto dei nostri padri. Alla fine devo dire che il Menego ci è riuscito un po’ meglio, ma io, da “fratello” ho sempre fatto un grandissimo il tifo per lui. Tra l’altro, giocando insieme nella squadra del liceo, coach Gianni Chiapparo, abbiamo vinto lo scudetto delle scuole medie superiori”.    

Cos’altro c’è nei tuoi anni delle giovanili?
“Tantissimo divertimento perché, a parte Jack Bottelli che è sempre stato un ragazzo serissimo oltre che di grande talento, con gli altri formiamo una compagnia di pazzi scatenati. A cominciare da Mariolino Di Sabato che era il capo indiscusso della squadra e dello spogliatoio e tirava i fili di tutte le gerarchie. Ho il ricordo di 63 punti segnati a Milano nella mitica “secondaria” del PalaLido, di un paio di trentelli segnati contro Robur e Treviso e un paio di finali nazionali conquistate con il nucleo dei ’74, quindi con Andrea Meneghin. Alle finali nazionali di Treviso vanno in scena i miei “scazzi” con coach Piva il quale, per episodi precedenti, non mi fa giocare contro Livorno e perdiamo di 1, mentre il giorno dopo contro Pesaro, in una gara che vale il passaggio del turno, mi manda in campo e io ne metto 25. Alla fine della partita i giornalisti mi chiedono: “Senti Michele, ieri n.e., oggi 25. Come mai? Non stavi bene?”. In stile calciatore-polemico, da bastardo perfetto replico: “No, stavo benissimo, quindi chiedetelo al coach perché non mi ha messo in campo”.

Poi, comincia la tua sterminata, e cronologicamente complessa, carriera senior.
“Nel 1993-1994, primo anno senior, gioco in C1 nel CMB Rho che, ai tempi, rappresentava la “scuola di formazione” per quasi tutti quelli che uscivano dalle giovanili Pallacanestro Varese. L’anno successivo, abbastanza da dimenticare, gioco in B2 alla Robur, ma è solo nel ’95-’96, a Vigevano, la mia vera carriera senior. A Vigevano mi vuole coach Romano Petitti, altro “elemento” mica da ridere, che mi dà fiducia, totalmente ripagata. Tra me e il “Petisso” si instaura un rapporto fantastico  e per lui mi sarei buttato nel fuoco. Petitti è la “mente” che produce scherzi a ritmo continuo e io sono il suo “braccio armato”. Ovviamente, anche a Vigevano non perdo la mia “vis” polemica e, per dire, già alla prima giornata litigo con un paio di giornalisti locali che in sede di presentazione della squadra non mi avevano nemmeno considerato”.

Spiega meglio, per favore.
“Al debutto in campionato un quotidiano locale, presentando tutte le “schede” dei giocatori, accanto al mio nome se la sbriga via rapidamente liquidandomi con questo giudizio “Zanatta e Laurencet, un giovane aggregato, non contano”. Un giudizio frettoloso e squalificante. Succede però che il giorno dopo, in casa contro Imola, andiamo sotto 15 e quando il disastro sembra essere compiuto coach Petitti mi manda in campo con il compito di rianimare la squadra. Io gioco con un’energia incredibile, accendo le micce di una rimonta che sembrava fosse impossibile, segno 21 punti e con un’azione da 3 punti metto anche al sicuro risultato e vittoria, scatenando il delirio del PalaBasletta, un palazzetto che per calore e tifo ha pochi eguali in Italia. Dopo la doccia, mi presento in sala stampa con la faccia “da culo” più bella di questo mondo e sventolando il trafiletto di giornale, mando ironicamente “tanti cari saluti” ai miei giornalisti preferiti”. 

Un paio d’anni, ovviamente io c’ero, ti ritrovo in squadra con i Roosters di Pozz, Menego, De Pol e coach Recalcati.
“Quella estate, dopo l’esperienza nelle Forze Armate, vivo nell’indecisione più totale, tant’è vero che, in accordo con i miei genitori, ho in progetto di preparare l’esame di ammissione per entrare in un College NCAA. Intanto, considerata l’assenza dei nazionali, mi alleno con la serie A e alla fine di giugno Edo Bulgheroni mi chiede se ho interesse a far parte del roster per tutta la stagione 1997-1998”.

E tu, cosa rispondi?
“Quel momento, lo confesso, è stato il più felice, il più incredibilmente, clamorosamente felice di tutta la mia vita da giocatore. Mi rivedo bambino a Masnago insieme a papà e penso che, vent’anni dopo, a ruoli invertiti sarò io a portare Marino alle “mie” partite. Immagine bellissima, in una favola stupenda”.

Come prosegue questa favola?
“Beh, i primi capitoli sono davvero memorabili ma il finale, è doloroso ricordarlo, non è quello classico da “vissero felici e contenti””.

Qui urge una spiegazione.
“Il mio approccio alla stagione è pazzesco. Mi alleno tutti i giorni per presentarmi al raduno “tiratissimo”. Sono il primo in tutti i test atletici e mi impegno come un toro anche negli allenamenti tecnici. Coach Recalcati mi offre spazio e minuti di gioco in Coppa Italia contro Napoli e Fortitudo e anche nei tornei – sono addirittura MVP al Torneo di Fucecchio -, che precedono il debutto casalingo contro Roma. Insomma: tutto sembra essere indirizzato al meglio per la mia prima convocazione. Invece, la faccio breve, da lì in avanti in campionato ci sarà per me una sorta di “divieto d’accesso”. Ci saranno, è vero dei minuti in Coppa Korac contro Galatasaray, contro Cibona Zagabria, ma in serie A un solo minuto, peraltro a Cantù. Superfluo aggiungere che ci rimango malissimo e anche se può sembrare inverosimile, in quella stagione in serie A perdo definitivamente la mia innocenza e rispetto alla “grande idea” che nutrivo verso la pallacanestro, quella è la stagione dei sogni sbriciolati. Da lì in poi, sarà tutto diverso. In alcune occasioni sicuramente bello da vivere, ma inevitabilmente diverso”.

Quali le occasioni “belle da vivere” e quindi da ricordare?
“Premessa: dopo Varese, nella mia vita entra in gioco in modo prepotente Olbia, una destinazione che per mille motivi di carattere umano e personale diventerà la mia seconda casa e, comunque, sotto il profilo cestistico, il luogo del cuore, quello in cui ritrovarsi nei momenti bui. Merito prima di tutto della famiglia Da Tome: papà Sergio, mamma Antonello e i fratello Tullio, Robertino e, ovviamente Gigi, allora un bambinetto che, diligentemente, si dava da fare ai tavoli dell’Hotel di famiglia. Con i Da Tome, e Basket Olbia di cui il signor Sergio era presidente, c’è un rapporto speciale e non a caso, in nome di Olbia, e per conto di Olbia, ho commesso inenarrabili sciocchezze cestistiche”.

Ad esempio?
“Per esempio mollare per quattro volte la B1 rispettivamente Udine, ma soprattutto Borgomanero, Forlì e Rieti, piazze in cui  stavo giocando molto bene e con rendimenti importanti, per tornare in Sardegna in B2. Mio padre, che di solito non interveniva mai nelle mie scelte, in un paio di occasioni aveva manifestato il suo netto dissenso però, cosa vuoi, a teste calde come la mia non puoi imporre granchè. Tuttavia, solo adesso, capisco di aver sbagliato o comunque di essermi comportato in maniera impulsiva. Ma, come ho già detto, l’attrazione con la Sardegna, Olbia e tutto il bello che gli girava attorno era qualcosa di magnetico. Irresistibile. Diciamo quindi che ho avuto un po’ meno dalla pallacanestro giocata, ma un po’ di più dalla vita. In definitiva è stato giusto così”.

Michelino, ovvero la scoperta di un personaggio trascinante, mi racconta decine di aneddoti – a pranzo con David Stern, compianto Commissioner NBA insieme a Edo e Tony Bulgheroni; quando fa il “mazzo” a David Rivers; quando Carlton Myers impressionato dalla sua intensità gli regala le sue scarpe edizione speciale e via discorrendo, come suonano?? -, uno più gustoso dell’altro, ma per trascriverli tutti servirebbe una monografia, perché un articolo, seppur già lungo come questo non potrebbe bastare. Così, anche se a malincuore, chiudo la chiacchierata con le sue, chiaramente tantissime, “nomination”.
“In prima fila, e non può essere che così, ci sono due “fratelli” come Andrea Meneghin e Gianmarco Pozzecco. Poi, citati così come mi vengono: Matteo Ulianich, Diego D’Ayala, Mitch Crespi, Pagani, Fontanel, Persico, Amgeli, Bortolani, Raggi, Ceccaroni, Soro, Di Gioia, Prato, Jacomuzzi, Ferrari, Tizzano, Liguori, Borghese, Toro De Tomasi, Zocchi, Puglisi, Castaldini, David Sanesi, Corpaci, Giò Borghi, Gufo Malavasi, Charlie Yelverton, Gianni Priarone, Ale Giglio, Paolino Remonti, Chicco Ravaglia, il “Gent” Roberto Gentile, Miguel Volkan, Fabrizio Besnati, Di Sabato, Bottelli, Mau Giadini, Silvano Zecchetti, Simone Girardin e chissà quanti altri ne ho dimenticati. Mi scuso con tutti loro”.

Allenatori?
“Già detto di Romano Petitti, vorrei citare Gianni Loi, persona meravigliosa, mio coach a Olbia; Giovanni Noli, eccellente allenatore e bella persona che mi ha allenato a Busto; Giani Chiapparo, coach dello scudetto liceale; Dante Gurioli al CMB; Silvietto Saini a San Giorgio e, infine, ho un pensiero speciale per Antonio Giannetti, mio coach alla Libertas Forlì. Con lui ho avuto grande feeling umano e tattico e non mi perdonerò mai di aver lasciato a metà (per tornare a Olbia…) un’annata capolavoro”.

E tuo fratello, quello vero: Marcone?
“Ci dividono 6 anni (Marco è classe 1981) e in realtà i veri fratelli per vicinanza sono lui e mia sorella Margherita (classe 1982). Però, detto questo, l’ultima stagione della mia carriera ho voluto farla insieme a lui al Bosto, sparandogli assist al laser”.

E, adesso, cosa fai di bello? C’è ancora pallacanestro nella tua vita?
“Poca, e solo guardata al palazzetto. Oggi, tutto il mio tempo è per il lavoro e la famiglia: Rachele, la mia compagna e i miei figli: Alice di 18 anni e Aaron, il piccolino che ha poco più di un anno”.

Come vuoi chiudere?
“Con una frase che, per certi versi, rappresenta il fotogramma di tutta la mia storia come giocatore. Giocavo a Rieti, in B1, e al termine di una buonissima partita coach Tonino Zorzi, dopo avermi fatto i complimenti, mi prende da parte e in dialetto veneziano mi chiede: “Ciò, mona de un Michelin: ma come xe che ti no te zoghi in serie A??”.
Già, come xe???    

Massimo Turconi

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