Dopo le tante voci su una possibile ripartenza, lo scorso 10 marzo il Dipartimento Interregionale ha sancito la definitiva sospensione del Campionato Nazionale Juniores U19. A farne le spese, tra gli altri, è stato il Città di Varese di mister Gianluca Porro che ha potuto disputare solo tre partite prima del blocco imposto il 29 ottobre 2020. “Sono amareggiato – esordisce Porro – anche se posso comprendere il momento particolare che stiamo vivendo tra l’aumento dei contagi e dei ricoveri. Non sono di certo un negazionista dato che ho avuto un morto in casa, io stesso ho preso il Covid e mio padre è stato malato a gennaio, ma rimango dell’idea che le chiusure a oltranza non abbiano cambiato più di tanto la situazione: dal primo lockdown a oggi, tra continui apri e chiudi e regioni di diverso colore, non ci sono stati chissà quali risultati”.

Quanto fa male dover stare fermi ai box quando altre categorie sono ripartite?
“Faccio una premessa: io sono felicissimo per tutti coloro che hanno già cominciato o ricominceranno a breve perché rappresenta un bel segnale di ripresa per tutto il movimento calcistico. Detto questo, c’è un enorme punto interrogativo che non riesco a risolvere: se la Juniores U19, senza bisogno di specificazioni come avvenuto per l’Eccellenza, è sempre stata considerata una categoria di rilevanza nazionale perché non è stata trattata come tale? Sono ripartiti anche gli Under17 nazionali con la formula dei minigironi per cui secondo me anche la Juniores poteva riprendere il campionato senza problemi, e invece qui sorgono le amare considerazioni in merito a ciò che è stato deciso. E, per evitare di aprire parentesi pericolose su ristori e contributi che non compensano minimamente i nostri sacrifici e i nostri investimenti, mi riferisco solo ad un discorso prettamente sportivo: la preclusione dell’attività sportiva è sempre stata trattata e approcciata con una superficialità imbarazzante perché chi prende le decisioni non ha la minima idea del numero di persone che vivono con il dilettantismo”.

La situazione era senz’altro difficile da gestire, ma tutti i rinvii e i posticipi dal 29 ottobre ad oggi non sanno di presa in giro?
“Assolutamente sì, è stata una presa in giro bella e buona. All’ultimo rinvio ormai nessuno ci credeva più; l’ultimo scemo rimasto ero io, ma perché mi aggrappavo alla definizione di categoria di interessa nazionale. Come ho detto prima sono ripartiti gli Allievi U17, è ripartita la Primavera femminile… non vedo perché non potevamo ripartire anche noi. E non si tratta del classico «se partono gli altri allora partiamo ance noi» perché io, e mi ripeto, sono felicissimo che qualcuno stia riprendendo l’attività. Voglio soffermarmi solo sui dati statistici: noi su trenta ragazzi abbiamo avuto un paio di casi di positività, per cui vorrei che qualcuno mi dimostrasse che facendo attività sportiva ci sono più possibilità di contagio. Eppure hanno sempre detto che finché si stava all’aperto e finché si evitavano i contatti per più di un quarto d’ora non si rischiava. E allora mi chiedo: qual è la verità? Come ci dobbiamo comportare? A prescindere da tutto questo so benissimo che la ripresa non sarebbe stata certo facile ma, con un minimo di gestione in più, tra protocolli e aiuti da elargire alle società, si poteva fare. Ultima considerazione: io organizzo tornei da cinque anni e so per certo che la stagione si poteva comprimere in due mesi e mezzo includendo i playoff attraverso la formula dei minigironi”.

La squadra come ha reagito in questi mesi?
“Ho un gruppo che è quasi commovente per la costanza che ha tenuto in questo periodo e per come vorrebbero continuare ad allenarsi nei limiti concessi dalle normative; noi tutti speriamo che a maggio si possibile fare qualche partita per poterci mettere in mostra. Dal canto mio ho cercato di lavorare soprattutto a livello psicologico per far vedere loro un possibile traguardo e tenerli così sempre sul pezzo: hanno risposto magistralmente dal punto di vista della presenza, dell’impegno e dell’applicazione. Il nostro lavoro è stato focalizzato il più possibile su una settimana normale, lavorando attraverso quattro sedute e ipotizzando di dover affrontare ogni volta un avversario diverso; in questo modo abbiamo impostato gli allenamenti su specifici sistemi di gioco e appositi lavori tattici e atletici”.

Rispetto ad inizio stagione, comunque, quanto è cresciuto questo gruppo?
“Per quanto abbiamo potuto fare la squadra ha compiuto passi da gigante. Sicuramente giocando il campionato avremmo avuto la possibilità di migliorare ancor di più e i ragazzi avrebbero colto l’aspetto di mentalizzazione che chiedo loro. Purtroppo la notizia della sospensione definitiva è stata una botta devastante per tutti: quel giorno io ero già a pezzi di mio e sono stato costretto a spegnere il cellulare perché non ce la facevo a sentire i miei ragazzi così delusi”.

Archiviata questa stagione, cosa ti aspetti dalla prossima? Si potrà ripartire in “normalità”?
“Io me lo auguro ed è lapalissiano. Io voglio poter sperare di ritrovare quell’ottimismo che questa situazione ti toglie e, sinceramente, continuo a sperare che questa stagione non sia archiviata. Vorremmo, come già detto, tenere la squadra in attività il più possibile per arrivare a maggio e poter dire di non aver vanificato la stagione in modo da ripartire a settembre in condizione di pseudo-normalità. Questo dipenderà dai risultati della campagna vaccinale anche se, inutile girarci intorno, per tornare alla normalità ci vorrà molto tempo”.

Parlando di argomenti decisamente più leggeri, so che lo scorso dicembre sei stato una decina di giorni a Johannesburg per un progetto promosso da Italia Calcio Coaching mirato alla formazione degli allenatori; che esperienza è stata quella sudafricana?
“Bellissima perché prima di tutto è un’esperienza formativa per coloro che fanno formazione: quando uno forma si auto-forma e infatti ho imparato molto in quei giorni. È stata una settimana di conoscenza improntata sull’approccio al lavoro che va costruito completamente dal punto di vista di allenatori e giocatori. C’erano 145 ragazzi da visionare, molti dei quali provenivano da realtà in cui giocavano già insieme, per cui li abbiamo divisi in gruppi a seconda dell’età per lavorare meglio. Mi avevano chiesto anche una sorta di scouting ma secondo me era un’operazione troppo prematura, che andrebbe eseguita in una fase finale di un progetto più a lungo corso”.

La realtà sudafricana è radicalmente diversa da quella europea o è più simile di quanto si possa pensare?
“È totalmente diversa perché ci sono differenze enormi. A livello calcistico, per quanto non mi piaccia dirlo, sono oggettivamente indietro ma hanno un materiale umano incredibile: sono dei diamanti grezzi, hanno un cultura completamente differente dalla nostra che però, con gli adeguati supporti, potrebbe crescere tanto. Accostandosi e uniformandosi alla scuola europea, modificando le concezioni base delle scuole calcio e lavorando in un certo modo con i bambini, si potrebbero fare cose incredibile e non è un caso che in tante squadre professionistiche ci siano sempre più giocatori di questa etnia”.

Cosa ti porti da questa esperienza?
“Sicuramente una crescita professionale e personale. L’attività formativa mi attrae tantissimo ed è quella su cui sono orientato perché mi è sempre piaciuto confrontarmi con altri per imparare e lavorare da autodidatta per capire nuove dinamiche. A proposito di formazione, e mi ricollego al discorso precedente, è normale che da questo punto di vista siano distanti anni luce dalla mentalità europea, ma se dovessi analizzare criticamente il nostro contesto risponderei allo stesso modo. Noi stessi, in Italia e in Europa, siamo i primi a non valorizzare a dovere i nostri giovani e dobbiamo avere l’umiltà di riconoscerlo”.

Tornerai in Sudafrica?
“Sicuramente proseguirò il mio rapporto con Italia Calcio Coaching. Recentemente mi hanno chiesto di andare in Kenya, per cui parliamo di un nuovo contesto, ma non si sanno ancora eventuali date. Di certo sarei ben contento di continuare questa avventura perché, come ho già detto, forma anche me e i porto dietro insegnamenti decisamente utili anche e soprattutto nella vita di tutti i giorni”.

Tornando a noi, tocchiamo ora un argomento parecchio delicato. Di fatto i ragazzi dei settori giovanili sono fermi da due anni; questo cosa comporta per il futuro?
“Bisognerebbe mettere mano al regolamento, ma non voglio avere la presunzione di sapere come. Partiamo dal presupposto che il percorso di un ragazzo nel settore giovanile dura undici anni e saltarne due è un bel problema: viene a mancare un biennio di crescita che inevitabilmente avrà ripercussioni sul futuro. A me piace allenare in queste categorie, Juniores e Primavera, perché è l’ultimo scatto che trasforma un ragazzino in un adulto e il mio compito è proprio quello di formare i giovani. Se il progetto di crescita viene bloccato, però, sarà difficile conseguire i risultati”.

Per concludere, un commento sulla Prima Squadra?
“Il Città di Varese è stato sottostimato, sottovalutato e sottopremiato rispetto a come lavora e all’unione d’intenti che si vede in settimana. Parliamo di una squadra costruita dal nulla e già conquistare la salvezza il primo anno è un passo importante per costruire qualcosa. Tutti si meriterebbero di raggiungere questo obiettivo perché non si sono fatti abbattere dalle circostanze e dalle avversità: l’equilibrio psicologico è fondamentale e ognuno di loro è sempre stato sul pezzo. Già solo rispetto a gennaio si sono risollevati in maniera clamorosa, ma non è ancora finita e quando l’obiettivo sarà raggiunto bisognerà alzarsi in piedi e far loro i complimenti”.

Matteo Carraro
(foto in alto Città di Varese)

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