Pasquale Curatolo, allenatore di lungo corso, che ha legato e lega il suo nome alla realtà di Cairate, può vantare una formazione e preparazione calcistica rara nell’ambito del dilettantismo. Allenatore diplomato Uefa A, preparatore atletico professionista e match analyst professionista, questi i titoli di studio maturati nel corso del suo percorso professionale. Al netto delle abilitazioni conseguite alla scuola di Coverciano e relative competenze tecniche, parlando con Pasquale Curatolo si disvela una persona animata da una grande passioneper il gioco del calcio e una concezione dello stesso in chiave sociale ed educativa, che restituiscono una dimensione più completa del fenomeno calcio.

Mister, cominciamo con qualche cenno biografico: lei che trascorso di giocatore ha avuto?
“Sono stato un giocatore dilettante. Quando ero giovane ero stato selezionato per la “Primavera” del Torino, ma i miei genitori non mi hanno lasciato andare e, quando in un secondo momento sono riuscito a convincerli, sono approdato, dalla Puglia in Piemonte, giocando nel Pinerolo Calcio, società allora militante in quella che era chiamata Serie C2. Da lì ho fatto tutto il mio percorso nelle formazioni dilettantistiche, con il ruolo di centrocampista centrale e libero. Nel Varesotto ho giocato nel Tradate e Malnatese, entrambe militavano nei campionati di Promozione”.

In un momento difficile per il calcio italiano, dove porre le energie per innescare un rinnovamento?
“Bisogna partire dal calcio dilettante. Spesso, in Italia, commettiamo l’errore di voler risolvere le cose intervenendo all’apice, ossia il professionismo. Invece, bisogna concentrarsi e dare attenzioni in termini di scelte politiche, gestionali e tecniche alla base, ossia il dilettantismo. Il livello territoriale è determinante. Bisogna contestualizzare il quadro sociale dentro il quale si trovano a operare le società sportive”.

Nella sua esperienza di allenatore-manager, quali sono oggi le maggiori difficoltà che deve fronteggiare una società di calcio dilettantistica?
“Le realtà di settore giovanile insieme all’apporto di sponsor presenti sul territorio per anni hanno rappresentato, e rappresentano ancora,  l’architrave sul quale si sostengono le società, questo ha permesso la crescita e strutturazione di molte realtà. Nel nostro territorio ci sono società molto organizzate, cresciute in termini di programmazione e formazione tecnica, anche la stessa Federazione negli anni ha permesso e sta facilitando la formazione degli addetti ai lavori. Il problema principale è quello di reclutare i giocatori. Per quanto riguarda la Prima squadra, se si diminuisce la portata dell’aspetto economico, alcuni giocatori non ci stanno, mentre per il settore giovanile ci sono difficoltà a favorire l’accesso dei giovani al calcio. Oggi i giovani sono spinti, purtroppo anche dall’immagine che prestano alcuni giocatori professionisti, dalla pubblicità alla mobilità virtuale, con mancanze di esperienze motorie e relazionali rilevanti. Oggi i ragazzi giocano poco”.

Ha accennato alla dimensione territoriale, qual è la sua fotografia del momento?
“Stiamo scivolando verso un modello medioevale, con forte accentramento dell’attività calcistica. Bisogna uscire da questa logica di stampo prettamente economica, che mette in secondo piano la crescita personale e calcistica del ragazzo econcepisce il calcio prevalentemente in un’ottica di merchandising, con uso privatistico delle strutture. Il calcio è un gioco, ma anche un fenomeno sociale, aggregativo ed educativo. Quando il pesce è grosso deve andare nell’oceano, non mangiare tutti i pesci più piccoli”.

Le società faticano a fare sistema?
“Ci vogliono delle regole precise, il territorio va regolato. La Federazione deve dare delle regole. Mi piacerebbe ci fosse una regola che indicizzasse la quota delle rette e una che ponesse un tetto massimo al numero di tesserati per società. Vorrei che i campionati, mi riferisco a quelli giovanili, venissero riformati e le società lasciate più libere di creare eventi e tornei con i quali finanziarsi e creare, contestualmente, aggregazione sociale. Un segnale in tal senso potrebbe arrivare dal non chiedere soldi per la presenza degli arbitri ai tornei delle squadre agonistiche”.

16-01-31 VARESE PONTE TRESA OLIMPIA VS CAIRATE CURATOLOParlando di settore giovanile, perché le famiglie e i ragazzi decido di concentrarsi in poche realtà?
“Ci sono ragioni strutturali accompagnate dallo slancio economico di alcune realtà. Oggi una famiglia preferisce una società che offre la possibilità di giocare su un campo sintetico sul quale il bambino si sporca meno. La questione centrale, però, sono le difficoltà educative che ci sono con i ragazzi. Oggi le famiglie non affidano alla società calcistica l’educazione sportiva del proprio figlio, ma dalle società pretendono e, spesso, insegnano ai figli a pretendere. Tutti pretendono, ma fare sport, fare un gioco di squadra come il calcio è darsi, non pretendere. È saltato l’asse che univa famiglia, scuola e squadra in un patto educativo”.

Quanto conta nell’orientare la scelta delle famiglie e dei ragazzi la questione del risultato, della vittoria?
“Ci può essere miopia e arroganza da parte degli allenatori e  società che vogliono vincere e si accaniscono sul risultato numerico. La domanda che bisogna farsi è che cos’è la vittoria. La vittoria è nel miglioramento educativo, psicologico, tecnico e tattico del ragazzo. Da quello si valuta un allenatore e da questi aspetti che l’allenatore deve sentirsi vincente. Con la crescita dei ragazzi arrivano anche i risultati numerici. Noi tecnici dovremmo essere i primi a essere consapevoli di questo aspetto”.

Cosa sente di dire a chi oggi fal’allenatore o vorrebbe avvicinarsi al ruolo?
“Di avere coraggio. L’allenatore, l’istruttore è una figura fondamentale, è un portatore di ricchezza umana. Ci sono stati grandi passi in avanti nella formazione degli allenatori, ma oggi chi ricopre questo ruolo, soprattutto in ambito giovanile, è in difficoltà, con la spada di Damocle sulla testa. Oggi manca l’essenziale perché il superfluo è diventato essenziale. Il calcio per i ragazzi era essenziale e con esso l’educazione sportiva che vi ricevevano. È un momento difficile, nel quale la paura deve produrre il coraggio. Il coraggio di dire dei no, il coraggio di saper ripristinare la privazione e il sacrificio come aspetti fondamentale nell’educazione e crescita, non solo sportiva, dei ragazzi. Siamo tutti troppo accomodanti con i giovani, pochi hanno il coraggio di essere impopolari, di alzare la voce se lo ritengono giusto. Bisogna fare delle scelte, anche a costo di sbagliare. Le faccio un esempio pratico: nei momenti di aggregazione con la squadra bisogna vietare il telefonino, perché altrimenti nessuno si parla, non c’è più relazione, ognuno è per conto suo. Bisogna rimettere al centro i valore del sacrificio per ricreare un senso comune che oggi manca e bisogna sensibilizzare le famiglie a una unione di intenti con le agenzie educative quali sono le società di calcio dilettante”.

Marco Gasparotto